Scoprendo la lente
il disegno cesello incide,
e non vuole,
dormire in camera segreta.
Socchiude l’armadio e filtra
il saggio perbene, odore pulito
e sporco misto
d’incenso come cattedrale.
E allora sì, gioisci e ti guardi
le rughe fessure del volto,
e tra le crepe scorgi
giardini.
Le infanzie tra gli olmi piccoli
alberi e distese di terra, come
tenere in braccio un boccio
tulipano.
A chiazze rosse e grigie di ferro
il naso manca tra i capelli
il collo, il tronco sottile e forzuto.
O fiocchi forse tra bambole
chiare? Tutto qui l’essere
PADRE, veramente, senza vasi
o dissesti?
O non è forse il tappo del vino
guizzante che estingue afrori
svaporati al solo foro
del succhiello?
Non sappiamo che dirti, macchina
stanca, tu che storie non hai
neppure smorte, vere
almeno un poco.
La mota dilava i tormenti, galleggi
sospeso in piccoli pezzi, l’uno
distante da Dio quanto un atomo
dall’estremo dell’Universo
senza chiedere un raggio che riveli
la trasparente contro luce ed indichi con
certezza l’ombra, mentre ora è solo,
ahimé, affetto.
(1987)