La poesia, secondo Shelley, agisce in modo divino e misterioso, al di là e al di sopra della coscienza in una mistura di piacere e di sapienza. Il rapporto tra questi due ultimi elementi è esplicitato nell’immagine di una pioggia di sapienza sul lettore di cui è intriso il suo piacere. Dentro dunque sta il piacere e fuori la pioggia (cioè la sapienza che lo intride). Un piacere gonfiato e irrorato dalla conoscenza. Il senso della funzione della poesia viene dunque chiaramente evidenziato in un rapporto assai stretto di conoscenza e piacere che si nutrono a vicenda e sono la causa stessa del loro sviluppo. Tuttavia, secondo Shelley tale rapporto è quasi negato dalla condizione della contemporaneità: solo i posteri conosceranno il potenziale dirompente della poesia che i contemporanei invece non apprezzeranno perché incapaci di riconoscerla.
Per questo il poeta è in realtà un solitario, un usignolo che canta al buio per alleviare la sua solitudine. L’immagine del poeta come uccello cantore – spesso solitario – è assai comune tra i poeti romantici: collocato a diverse altezze (come non pensare alla torre antica da cui canta il passero solitario di Leopardi?) egli profonde il suo canto senza aspettarsi ricompensa alcuna, è un benefattore inconsapevole dell’umanità, sulla quale riversa bellezza che nella sua interiorità è nuda verità.
A questo punto la musica di questo musicista invisibile comincia ad agire e provoca desideri: desideri di emulazione, di imitazione e di identificazione con gli oggetti dell’ammirazione che costituiscono il nocciolo duro del fare poetico. Fare poesia dunque significa sommergere l’umanità e travolgerla con la bellezza: non importa se quella che si canta è una bellezza che possa apparire imperfetta. Le imperfezioni di cui sono intrisi gli oggetti poetici coprono semplicemente senza nasconderle le proporzioni eterne della loro intrinseca perfezione. Qui sta l’eccellenza: non nella perfezione esterna della composizione poetica ma nella natura interiore che la sostanzia.
Shelley va addirittura oltre: arriva a sostenere che l’imperfezione ‘esterna’ è necessaria per temperare la musica planetaria della vera poesia per le orecchie mortali che non potrebbero ascoltarla se fosse semplicemente nuda bellezza.
Ecco dunque esplicitato il concetto di eccellenza poetica: una mistura di perfezione interiore e di imperfezione esteriore che attraverso il paludamento mortale e quindi limitato (dato dalla parola umana che è limitata e quindi limitante) riconduce, mediante suggestione, a ciò che sta sotto il velo che è cosmica purezza e indicibile mistura di sapienza e piacere.