Suoni – niente.
E non poterti descrivere.
Passi da una riva all’altra
e il guado nel mezzo ti cambia
senza violenti strappi.
Eppure anche nel volto stonato
l’ago segna il tatuaggio
e l’inchiostro invisibile
a furia di fiamma emerge
opprima o poi a segnare le rughe.
Così t’invecchi, delicato
avvoltoio passando per
il maggio del bello aulente,
quella pineta al pianto di pioggia.
Ma senza spirti silvani
rimane il mistero d’alberi
e viti intrecciate su su per il corpo,
linfa ideale di tutte quelle piccole
invidie dei padri al vedere i
denti di latte strappare
gli orditi intessuti, disegni
ammorbiditi. Non è così forse
acerbità?
Fissato nel sacco i pensieri, disprezzi,
spallucce alla lente che t’ingrandisce,
corsa dalle fabbriche passano i capelli,
capofitto verso le trappole ingenue.
Ora è di contorcersi, viscere,
inghiottire il mandorlo amaro,
stilla su stilla, scontare l’indeciso,
se azione o parola, o pensiero astratto
e scendere, scendere giù
cerso il grembo materno musica
minore, concilio d’opposti colori
e sapori, agro obiettivo
del parto e delle mandorle
amare scontate dai padri. Nostri.
(1988)