Bisogna osare a volte.
Questo si diceva il cavalier Rozzaghi tre volte al giorno per tutti i giorni della settimana. E generalmente se lo diceva mentre guardava la recinzione a pali di ferro appuntiti di Villa Roggia ornata, anzi infestata, dalle canne dei bambù ornamentali che crescevano a dismisura nel parco e che formavano dei macchioni che non ci si riusciva a vedere attraverso neanche avessi avuto un apparecchio a raggi x.
E poi oltre il sommo del muro un poco più verso l’interno apparivano banani, eucalipti giganti e altre piante esotiche dai nomi sconosciuti, quasi che il muretto costituisse una sorta di confine climatico che vedeva al di là la ubertosa e grassa prosperità vegetale equatoriale mentre al di qua, e precisamente nel giardinetto da retro del cavaliere riusciva a crescere solo qualche stecco ritorto di alberello e un magro praticello con grandi chiazze di giallo e di marrone che s’accentuavano nella calura estiva.
Ragion per cui al Rozzaghi andava regolarmente di traverso l’aperitivo ch’era uso concedersi nel suo backyard ogni giorno puntuale alle undici di mattina, poco prima del pranzo e schiattava d’invidia chiedendosi che cosa mai facessero i suoi vicini per ottenere un simile groviglio di verde.
Il parco di Villa Roggia era più grande del gran parco pubblico del paese di Mornate che a sua volta possedeva il più gran verde di tutti i paesi dei dintorni: questo per figurarsi la magnificenza di quel giardino che peraltro pochissimi avevano avuto la fortuna di vedere, essendo che, come ogni ricco, i padroni della sontuosa villa dimoravano ivi pochissimi giorni all’anno, pur mantenendo in perfetta efficienza ogni suo apparato con una gran schiera di servitori.
Ed erano loro per l’appunto che riportavano nei bar o nei conviti familiari, le decantazioni delle bellezze dell’augusta dimora.
Il Rozzaghi ascoltava sempre, e più ascoltava più si rodeva d’invidia.
«Perché mai deve piover sempre sul bagnato?» si diceva, rosicando «Una simile bellezza è uno spreco per quei ricconi che non sanno manco d’averla, la villa e il parco e tutto quello che c’è lì dentro. Sarebbe bello che fosse toccata invece a uno come me che avrebbe saputo curarla e riverirla la magione, al pari della sua dignità e della sua importanza. Casi del destino» ruminava e cercava di pensare ad altro per non morire di angoscia.
E intanto anche quell’anno era arrivato Luglio, il mese ch’egli aspettava con più voglia, quello delle vacanze che ora, a dire il vero, in pensione com’era, non erano neanche più così agognate. Un po’ per la vecchiaia, un po’ perché in fondo per lui tutto l’anno, privo di lavoro, era, in qualche modo una vacanza, a tratti così uggiosa da rovinare il gusto per le vacanze vere, quelle cioè dove si parte e non ci si fa più vedere per tre settimane almeno.
Così quell’anno aveva deciso unilateralmente che in vacanza non si sarebbe andati se non qualche giornicchio qua e là, proprio per poter dire a tutti gli amici del circolo che sì, insomma, per quell’anno s’era in effetti ancora andati da qualche parte…
Le ire della Cesira si erano scagliate sul marito in forma di sciopero della cucina: niente vacanze, niente cibo. Lui, il Rozzaghi allora s’era chiuso in un ostinato e rancoroso silenzio. Il backyard era diventato l’abituale dimora, proprio perché la Cesira odiava quella fantasmatica peluria d’erba e cespugli e non ci andava mai.
«Qua mi posso godere il mio tempo senza quell’antipatica tra i piedi» diceva il cavaliere a se stesso mentre sorseggiava un drink alla buona che s’era preparato da solo, ed era capace di stare lì per tutto il pomeriggio, la sera e parte della notte senza mai rientrare in casa.
Che cosa faceva egli là tutto quel tempo?
Niente.
Lo passava a deprimersi e a rodersi d’invidia immaginando il garden al di là del muro, associato nella sua fantasia all’atmosfera delle feste dei ricchi, i party all’aperto dove un mucchio di gente interessante (e ricca) si trovava per incontrarsi, conoscersi, sfrucugliarsi, farsi venire delle idee e far andare avanti il mondo tirando la strozza ai poveracci che capitavano sotto le loro sgrinfie avide. Rozzaghi si sentiva tagliato fuori da tutto ciò: la festa più bella a cui aveva partecipato era stata quella della sua pensione, quando egli, impiegando una parte della liquidazione futura aveva affittato un cascinale e aveva offerto la cena a una ventina di amici. Era tutto eccitato in quell’occasione e voleva che la festa riuscisse una meraviglia, ma un po’ perché non aveva voluto spendere troppo – anche era già troppo secondo l’opinione della moglie – un po’ perché alla fine gli invitati erano stati sostanzialmente i colleghi di lavoro con cui aveva condiviso praticamente – da buon vecchio cavaliere del lavoro – una vita ed essi, esattamente come in ufficio, erano d’una noia mortale, monocordi nella conversazione e ottusamente centrati sul lavoro, quel party era riuscito d’un uggia assai più noiosa del solito .
Invece Villa Roggia…
Ricordava perfettamente una volta, parecchi anni prima, quando c’era ancora il vecchio, era stata data una festa con tremila lampadine accese in uno spazio nel parco in cui era stato allestito un palco per l’orchestra e un catering con dei profumi che erano arrivati sin nel cortile della sua vicina magione.
Mentre se ne stava così rancoroso a rammentare tutta la bava che ci aveva messa quella volta lì e altre in cui udivano risate e chiassate da festino, gli parve improvvisamente che di là dalla recinzione si accendessero improvvisamente mille luci.
Curioso si alzò dalla poltrona spelacchiata del giardinetto posteriore in cui era, come al solito, parcheggiato e andò verso il muro divisorio. La sua sommità risplendeva effettivamente d’una luce bianca e si udivano dei rumori di acqua smossa, come di piscina.
«Oh bella» borbottò il Rozzaghi «Che quei maiali si siano fatti fare una piscina proprio qui sotto il mio naso? Eppure non hanno fatto lavori… farsi una piscina vuol dire smuovere terra, mettere in moto scavatrici…»
Così dubbioso cominciò a crescergli la curiosità e la smania, tanto più che adesso agli sciabordii che s’intuivano si mescolavano alcune voci argentine che tutto avevano del femminile.
«Carne giovane» disse masticando acido e gli venne l’idea di sbirciare almeno un momento la selvaggina che s’agitava al di là cercando rinfresco in quella torrida serata.
Sì deciso andò nel capanno degli attrezzi e prese una scala con delle cesoie – almeno avrebbe avuto la scusa di una potatura tardiva se qualcuno l’avesse sorpreso – indi trascinò la sua pesante e flaccida carcassa sopra i gradini fino al punto in cui l’altezza del muro fu a quella dei suoi occhi.
Goloso, gettò lo sguardo sul mare di verzura del giardino e intravvide poco distante una meravigliosa piscina che si apriva davanti a un edificio con colonnato che pareva un tempio greco.
Rozzaghi si sfregò gli occhi: quella piscina non c’era mai stata, ne era sicuro, men che meno quella specie di tempio. Lambiccandosi il cervello per capire come si fosse fatta tutta quella gran costruzione senza neanche un rumorino di cantiere che fosse uno – e lui c’era stato attento a tutto ciò che proveniva da quella direzione – sbirciò di nuovo per vedere chi gettasse risate e strida così argentine. Quel che vide poco mancò che lo gettasse giù dalla scala.
Erano tre ragazze tutte nude che s’attuffavano, si spruzzavano e giocherellavano con la figura di godersela un mondo la freschezza dell’acqua. Il Rozzaghi deglutì, si sbiancò le dita per tenersi aggrappato alla scala e vieppiù interessato cercò di mettere a fuoco le signorine per osservarne meglio i particolari.
Egli maledì l’oscurità che stava lentamente scendendo che rendeva indistinte le cose, nonostante alcuni potenti riflettori illuminassero quella scena e alcune luci in acqua fiabeggiassero dal fondo rendendo specialmente luminosa la superficie acquorea.
Non erano niente male quelle ragazze, si scoprì a pensare il cavaliere che in cuor suo avrebbe dato mill’anni della sua vita per poter avere una quarantina di anni in meno.
Ragazze ricche a quanto sembrava, abbronzate naturalmente in tutte le parti del loro corpo, roba sofisticata, d’alto bordo.
Una in particolare attrasse le sue attenzioni: torreggiava in statura e bellezza sulle altre due, il seno forte e vigoroso su un corpo flessuoso e magnifico, forte e dolce, proprio come piaceva a lui.
Rozzaghi sospirò mentre vaghi ricordi di gioventù, che credeva d’aver dimenticato da tempo, si affacciarono prepotentemente alla memoria. Egli si distrasse nello scandagliare le sensazioni a cui il suo corpo rispondeva con una certa fatica ma che gli sembrarono tuttavia sufficientemente prepotenti per farlo ricordare d’essere ancora in vita, e improvvisamente una delle due gregarie si voltò nella sua direzione e indicò il suo faccione raggrinzito ridendo in modo piuttosto sguaiato con le altre due.
Rozzaghi si ritrasse prontamente, un poco indispettito ma vergognandosi alquanto per quella deprecabile situazione.
Ecco, adesso le tre bellezze avrebbero pensato al solito guardone bavoso vecchio e rincitrullito e chissà quanto lo avrebbero preso in giro tra loro per averlo sorpreso a fissarle così di nascosto, con lo scopo di rubare qualche alito perduto di giovinezza…
Mentre il volto e le viscere si infiammavano di ira e imbarazzo, sentì provenire una serie di richiami dall’altra parte della cinta.
«Yuhuuu» faceva una.
«Fati vederrreee» diceva un’altra con un evidente accento straniero.
«Ehiiii» e gli inviti continuavano a superare il muro con insistenza, e anzi, s’avvicinavano come se le tre ragazze avessero abbandonato il bordo della piscina e fossero arrivate sin lì sotto, precisamente nel punto in cui si trovava.
Per far cessare quello starnazzìo – volesse il cielo che non lo sentisse la Cesira, altrimenti sarebbe stato un disastro – egli s’arrampicò nuovamente fino al bordo e sporse il capo.
«Ssssst!» fece mettendosi l’indice sul naso.
«E perché?» chiese quella che l’aveva chiamato.
«Mia moglie…» disse allargando le braccia.
«No capisco» rispose la ragazza poi voltandosi verso le altre due: «Che cosa detto?»
«No so» disse una.
«Chiedi meglio» disse quella che aveva attratto l’interesse del Rozzaghi.
«Vieni giù» lo invitò la prima «No riesce di capire»
Il cavaliere, di fronte a cotanto invito, si guardò intorno, esitò, si grattò il mento. Della Cesira non si vedeva neanche l’ombra, forse era andata a dormire. L’occasione era ghiotta, quella cioè di vedere il giardino della villa dal vivo, e poi c’erano quelle tre, completamente ignude che sembravano non provare vergogna o pudore alcuno.
«Avessi incontrato un po’ di ragazze così quand’ero giovane, gli avrei fatto vedere io…» bofonchiò e poi cedette. Salì ancora qualche gradino e si rese conto che dall’altra parte non c’era nulla per scendere.
«Come faccio a scendere?» disse alle ragazze. Si misero a ridere, confabularono un po’ tra di loro e poi due se ne andarono mentre la terza gli diceva: «Attende one moment, please»
Di lì a qualche secondo comparvero le altre due con una scaletta a pioli.
«Dài, su, viene» dissero tutte insieme ridendo.
Il Rozzaghi non se lo fece dire due volte e con un’agilità che non pensava più di possedere – effetto della vista di tutta quella giovane selvaggina – si levò in piedi, in equilibrio sul muretto, quindi scese dall’altra parte dove lo stavano aspettando le ragazze festanti.
«Como ti chiame?» chiese quella più alta.
«Giacinto Rozzaghi» rispose questi «E non volevo che parlaste forte… poteva uscire mia moglie da un momento all’altro»
«Cariiiiino, è spossatto» dissero tutte e tre e cominciarono a riempirlo di moine mentre lo conducevano verso la piscina.
«Noi qui siamo tutte sole» disse una.
«Ma adesso ci sei tu»disse l’altra.
«Fai il bagno con noi?» chiese la terza.
«Sì, sì, sì» dissero le altre con strilletti e cominciarono a spogliarlo mentre lo riempivano di bacetti e di carezze.
Il Rozzaghi, dimentico della sua età, della considerazione ch’aveva del suo corpo, perduto e inebbriato dal profumo della giovinezza, non oppose nessuna resistenza, nemmeno quando fu completamente nudo.
«Io però non so nuotare» si schermì nel momento in cui le ragazze stavano per attuffarlo nella vasca.
Queste si misero a ridere: «Tu no pensare. Ci pensiamo noi. Ti mostreremo come si fa» e lo trascinarono dentro.
Il rozzaghi si riebbe in un momento dal deliquio nel quale era caduto. Il contatto con il liquido algido, e soprattutto la mancanza di presa con il fondo lo fecero risvegliare all’istante e si mise a starnazzare delle strida che invocavano aiuto mentre affondava lentamente e cominciava a bere come non aveva mai fatto in vita sua.
Dal canto loro le ragazze, sul bordo della piscina ridevano come matte indicandolo a dito e imitavano i suoi patetici tentativi di rimanere a galla mettendone in mosrta la goffaggine e il sacrosanto terrore ch’esprimevano.
Poi tutt’e tre s’attuffarono, e lo presero per mano cantandogli una nenia in una lingua stranissima ch’ebbe il potere di tranquillizzarlo e di rilassarlo. Mentre le ragazze lo posavanpo dolcemente sul fondo egli ebbe ancora in un lampo la visione di quella più alta e si girava verso di lui mostrandogli in controluce un ghigno scheletrico, profondamente soddisfatto.
Fu solo un attimo prima di chiudere definitivamente gli occhi e lasciare con dolcezza su questa terra tutto il livore che aveva coltivato per anni davanti a quel muro che divideva lui dalla soddisfazione di tutti i suoi più intimi e disperati desideri.