Per tutto il pomeriggio quella melodia gli aveva occupato la mente. La successione delle note gli pioveva in seno una dolcezza soffocante, da mozzargli il respiro. Eppure si era mosso come sempre, con la sua abituale asciutta caparbietà. Come se quella non fosse l’ultima volta. Aveva rimproverato i bambini con una rudezza appena temperata dalla loro frequentazione ormai quarantennale, una spigolosità assoggettata alle necessarie attenzioni pedagogiche.
«Per non scoraggiarli» diceva sempre, quando venivano a vedere i risultati del suo coro. E rimanevano senza parole alle prove. Tutto filava liscio e lui non aveva bisogno di dire molto. Bastava uno sguardo. Un movimento della mani. Quelle mani che affascinavano e stregavano tanto parevano leggere o pesanti.
«Una perfetta direzione abbisogna di mani perfette» diceva con un sorrisetto sarcastico e poi se le guardava le mani mentre tracciavano nell’aria, in irrilevabile anticipo le dinamiche del suono che usciva da quelle bocche, da quei polmoni, da quei petti…
«Professor Brown» nella sacrestia entrò il decano Welby. Gli prese le mani, affabile: «Credevo che non sarebbe mai giunto il momento….» disse con le lacrime agli occhi mentre gliele stringeva.
Lui lo guardò stranito: «È naturale» disse «è tutto naturale.»
«Come si sente?» gli sussurrò vicino all’orecchio.
«Come dovrei sentirmi? Come prima di una funzione.» rispose quegli asciutto.
«Voglio godermelo, questo concerto» disse il decano lasciandogli le mani.
«Funzione, prego, non lo dimentichi.» lo corresse il professor Brown.
E in quello stesso istante, sotto la scorza, il cuore ebbe un tuffo.
Era vero: quella era l’ultima notte di Natale che lo avrebbe visto lì, al podio.
L’ultima. “C’è una forma di grandiosità in un’ultima cosa” pensò mentre cercava di concentrarsi e soprattutto di scacciare quella melodia che gli ronzava dentro.
Il decano sorrise e si avviò a vestire i paramenti.
Brown si voltò verso la finestra istoriata di ghiaccio. Fuori era quasi buio. Una serie di punti luminosi in frenetico movimento, una fila disordinata, si avvicinava alla porta che dava sull’esterno. Un cicaleccio acuto di voci puerili penetrò nella sacrestia attraverso i vetri massicci.
Il primo a entrare fu l’assistente Wilson. Si affrettò a raggiungerlo e a stringergli la mano: «Fuori nevica» disse eccitato.
Brown assentì leggermente.
I bambini nella loro divisa stavano entrando mentre il sacrestano, il reverendo Allen smaniava per la neve che lasciavano sul palchetto lucido.
Brown fece un cenno a Wilson di avvicinarsi: «Ha parlato con l’organista?»
Wilson assentì: «Per Myn Lyking? Sì, gli ho detto quello che lei…»
«Deve attaccare piano, quasi pianissimo…» disse come parlando fra sé e sé.
I bambini vociavano eccitati mentre indossavano i camici e i rocchetti. Brown fece un «Sssst!» che non ammetteva repliche e il silenzio tornò in sacrestia, appena rotto da qualche parola sussurrata.
Un cappello femminile con un’enorme tesa marrone si affacciò dalla porta che dava sul tempio.
Il volto grinzoso di una signora dal portamento altero scrutò qua e là e si illuminò quando vide Brown. La dama entrò sorridendo. Brown si inchinò inespressivo davanti a lei.
«Emozionato maestro?» chiese lasciandosi baciare la mano.
«Come prima di una funzione» ripeté Brown.
«Ma questo non è un concerto qualsiasi» disse la donna con forza.
Brown alzò leggermente le spalle mentre un’altra fitta gli entrava in cuore.
Era vero: quella non era una funzione qualsiasi.
La donna gli si accostò: «E per la sua successione? Si sa già qualcosa? Non vorremmo perdere il livello raggiunto dal coro… è una questione di immagine»
Il maestro la guardò dall’alto: «Credo che il capitolo provvederà al meglio. Ho suggerito qualche nome, se avranno la bontà di seguire i miei suggerimenti… » disse.
«Ne sono lieta. Farò in modo che la scelta vada su uno dei suoi nomi» fece quella «Ora la lascio concentrarsi.
La linea melodica si fece udire più chiaramente nella testa. Mentre la dama si allontanava, Brown fu sopraffatto dai ricordi.
Ricordava la sua prima notte di Natale, lì in quella stessa sagrestia molti, moltissimi anni prima.
Quanto era giovane allora. E senza esperienza.
Aveva solo la sua sicurezza.
E un mucchio di tempo davanti.
Una voce brontolò dentro di lui: «E adesso il tempo è finito»
Fu riscosso da un tossicchiare. Brown vide che Alan, il solista, si era avvicinato tenendo qualcosa dietro la schiena.
Si chinò verso di lui: «Che c’è Alan?» chiese.
Alan arrossì. La sua testa rotonda, con i capelli pieni di gel che li scomponeva con grazia, si girò verso i compagni che lo guardavano.
«Io… cioè voglio dire tutti noi abbiamo pensato che… per questa sera… cioè volevamo dargli questo.» e gli porse un minuscolo pacco lungo e sottile.
«Oh, perbacco…» fu l’unica cosa che seppe dire, poi si mise a scartabellare l’involucro, fissato con una quantità incredibile di nastro adesivo.
«Ehm… vorremmo che questa sera dirigesse con questa…» disse Alan mentre Brown estraeva da una scatola quadrata allungata una bacchetta di legno.
«L’abbiamo fatta noi» aggiunse il bambino mettendo in mostra due giganteschi dentoni in un sorriso cavallino.
«Oh… è bellissima» disse Brown mentre la melodia interna giungeva a un apice acuto di celestiale bellezza. Si fermò un momento ad ascoltarla. Aveva uno straordinario potere di attrazione che aumentava a mano a mano che il momento della funzione si avvicinava.
«Sì, penso proprio che la userò questa sera» disse, quasi commosso.
«E volevamo fargli gli auguri per l’ultimo concerto…» disse.
Brown lo guardò storto: «Vi ringrazio. E adesso pensiamo a cantare bene» aggiunse, cercando di rimettere a posto la scorza.
Alan si ritirò al suo posto nella fila che si stava componendo.
Il Maestro del coro si avviò verso l’armadio. Prese la talare e il rocchetto e la doppia stola blu e rossa.
Il corteo era quasi a posto.
«Dov’è il crucifero?» chiese il decano Welby.
«Eccomi» disse un ragazzo. Aveva i capelli lunghi ed era più alto di una spanna dei suoi compagni.
Wilson gli porse un paio di guanti bianchi: «Non dimenticare i guanti» gli mormorò.
Improvvisamente Brown si sentì vacillare e sentì un mancamento che non aveva più provato da molto e molto tempo: era paura.
Si guardò intorno smarrito mentre Wilson e il reverendo Allen terminavano di mettere a posto i bambini. Vedendolo così, immobile i due si guardarono, poi Wilson si avvicinò a lui: «Maestro, il suo posto, qui davanti al coro…» gli sussurrò.
Brown si riscosse: «Sì, Wilson. Il mio posto è qui…»
Allen passò in rassegna i bambini e aggiustò qualche cravatta storta, poi fece un cenno all’assistente.
Questi guardò il decano che disse: «Andiamo»
Il corteo si avviò verso la porta che dava nella cattedrale. L’organo iniziò il preludio. Brown si guardava intorno, misurando terrorizzato quei metri. Quando varcò la soglia ed entrò nella splendida navata illuminata dalle luci natalizie, la sua musica interna e quella dell’organo si sincronizzarono e le note soffuse dell’inno di Natale avvolsero il corteo e lo trasportarono nella dolcezza della neve, dell’infanzia e del gesto con il quale il Maestro avrebbe spalancato il solito varco verso la musica della Notte.
Per l’ultima volta.