«Questa mi piace» disse il signor Olney guardando attraverso il monocolo la stampa protetta da una cornice elaborata in legno.
Il commesso sorrise: «Io la trovo bellissima» disse.
Olney gli lanciò uno sguardo pieno di disprezzo. Si portò il fazzoletto profumato al naso e disse: «La prendo»
Il commesso dietro il bancone si inchinò: «Gliela imballo?» chiese.
L’altro lo squadrò insofferente: «Riesce a farlo per oggi pomeriggio? Manderò il mio chaffeur a prenderla»
«Certamente» disse il commesso, servile.
Olney lo guardò ancora un’ultima volta, poi scosse il capo e si apprestò a lasciare il negozio, non prima di fare una sosta alla cassa.
«È nuovo il ragazzo?» chiese al vecchio che pigiava i tasti del registratore di cassa.
«Sì, monsieur» disse questi asciutto mentre riceveva i denari.
«Non mi sembra molto esperto» disse mentre afferrava la ricevuta.
«Deve fare un poco di esperienza. Ma è giudizioso e serio. Diventerà un ottimo commesso. E soprattutto…» disse vecchio accostandoglisi come per fargli una confidenza e abbassando la voce «…fidato»
Olney fissò scettico Monsieur Morel: «Nella vendita, me lo lasci dire, essere fidati spesso non basta. Bisogna anche essere brillanti»
Il vecchio allargò le braccia: «Non voglio certo insegnare niente a lei, ma a mio parere è meglio un ciuco fidato che un puledro matto»
Olney alzò gli occhi al cielo. Ecco, se c’era una cosa che detestava era quel tipo di ragionamento da osteria. E poi il ragazzo non gli piaceva e basta. Aveva un’aria stolida, da bradipo rassegnato, era lento, non capiva i desideri del cliente.
Sospirò.
«Tornerete presto monsieur Olney?» chiese il vecchio.
«Non vengo sovente a Parigi. È una città, con tutto il rispetto, che non mi piace. Anche se qui posso trovare cose che altrove è difficile rinvenire» concluse annoiato.
«Siete molto esigente. Io amo i clienti esigenti. Aiutano l’attività a crescere» disse Morel sornione.
«A far crescere il conto in banca certamente» disse acido Olney.
«Siamo qui per questo» replicò filosoficamente il proprietario del negozio d’arte antiquaria.
Quando Olney fu fuori dalla botteguccia si sfregò le mani.
“Ignoranti oltre che miopi” pensò.
La stampa che aveva trovato valeva ben oltre i ventimila franchi che aveva pagato. Conosceva un paio di collezionisti che sarebbero stati disposti a versargliene quarantamila senza neanche contrattare. Sì, la mattinata era cominciata bene.
Si distese – ogni trattativa, per quanto semplice come quella che aveva appena conclusa, lo innervosiva nel sottofondo – e cominciò a passeggiare sul lungosenna aspirando l’aria di primavera.
Lanciò distrattamente qualche sguardo qua e là alle decine di baracche dove si potevano trovare gli oggetti più improbabili venduti da svuotasoffitte che millantavano antichità così chiaramente false da essere quasi credibili.
Quel colpo di fortuna lo aveva messo di buonumore e l’atmosfera dei mercatini lo divertiva.
Improvvisamente la sua attenzione fu attratta da un trabiccolo di legno su cui erano esposti solo due bronzetti. Uno rappresentava una figura femminile distesa su un canapé. L’altro rappresentava un ragazzo nudo che si asciugava con un telo.
Olney, fingendo indifferenza ma sommamente agitato si accostò al banchetto.
A tenerlo c’era un monello di una dozzina di anni vestito con un pullover di lana grossa tutto rappezzato. La fattezza di quei bronzetti era finissima. La donna aveva un’espressione lasciva e affascinante e la morbidezza delle fattezze era data da una particolare tornitura del metallo che presentava una colorazione scura in cui c’erano riflessi di miele e legno.
Ma quello che aveva soprattutto colpito Olney era il secondo bronzetto. Il corpo del ragazzo era perfetto, torto in un dinamismo che guizzava di movimenti sottintesi eppure così vivi da parere reali. Le proporzioni erano perfette e il viso, nella sua minutezza splendeva di regolare, classica perfezione.
Con fare noncurante Olney si accostò ulteriormente. Da vicino i bronzetti erano ancora più belli: Olney avvertì chiaramente la scossa elettrica paragonabile a una musica che scende dall’alto quando, guardando da vicino i dettagli delle sculture, si rese conto che solo un grande artista poteva averle realizzate.
Dopo essersi fermato un po’ a guardarle chiese al ragazzino: «Quanto vengono?»
Questi si voltò verso di lui: «Il babbo mi ha detto di non venderli a meno di quattromila franchi l’uno»
A Olney venne il capogiro: non era possibile che quella mattina fosse così fortunata. Prima la stampa non riconosciuta dal negoziante e adesso questi capolavori.
«Sono un po’ cari» mentì guardandosi intorno come per suggerire l’idea che l’affare non gli interessava.
«Mi spiace. Il babbo ha detto così e io non posso fare altrimenti» disse il ragazzo.
«Posso prenderlo in mano?» chiese Olney accennando al bronzetto del ragazzo.
Il piccolo venditore gli porse un paio di guanti che un tempo erano stati bianchi: «Solo se mette questi» disse costui «Il babbo dice che il pregio di queste statue è il colore. E se tutti le toccano non sono più belle come prima»
Olney ne convenne tra sé e sé ma tanto per non darla vinta sbuffò: «Accidenti a te. Ne hai di pretese per questi vecchiumi» e fece per andarsene.
«Non volete prenderle in mano? Sentirete quanto sono leggere» disse porgendogli i guanti.
Simulando insofferenza – in realtà non vedeva l’ora di poter soppesare quelle meraviglie – Olney infilò i guanti e prese in mano prima l’uno e poi l’altro bronzetto.
Il piccolo aveva ragione. Erano leggerissimi eppure robustissimi. I particolari visti ancora più da vicino erano di una precisione sorprendente.
«Questi potrei addirittura tenerli per me» disse tra sé e sé. Li posò, si sfilò i guanti, si grattò il mento poi disse: «Per duemila l’uno te li potrei comprare tutti e due.
Il ragazzino lo guardò serio: «Ho detto quattromila. Non posso venderli a meno»
«Posso arrivare a tremila. Non un franco di più» ribatté Olney.
«Mi dispiace. Quattromila. Il babbo ha detto che è il minimo»
“Il tuo babbo è uno sciocco. Non sa quanto possono valere questi bronzetti” pensò Olney, vergognandosi un poco a trattare in quel modo una simile meraviglia.
Il ragazzo si strinse nelle spalle e Olney era indeciso al banco.
«Ti va bene, ragazzo. Oggi non ho voglia di contrattare. Li prendo tutti e due al prezzo che hai detto tu» si decise alla fine.
Un largo sorriso illuminò il volto del ragazzo: «Fate un affare» disse.
Prese il denaro e poi avvolse i bronzetti in alcuni fogli di giornale, infilandoli quindi in una borsaccia di tela bisunta.
Olney afferrò la borsa, ancora incredulo per l’affare che aveva appena concluso. Fece per andarsene poi si voltò indietro: «Tu sai per caso chi le ha fatte queste due statuine?» chiese distrattamente.
«Il mio babbo» disse orgogliosamente il ragazzo mentre smontava il trabiccolo.
«Il tuo babbo?» chiese incredulo Olney.
«Sì: la signora della statua è mia sorella e l’altro è mio fratello. Ne Ha fatta una anche a me. L’ho venduta ieri».
Olney si sentì pungere da una vertigine: «Abiti distante da qui?» chiese.
Il ragazzo lo guardò diffidente: «Perché?»
Olney si ritrasse: «Oh, niente… mi piacerebbe conoscerlo, tuo padre. Avete ancora qualche altra statuetta come queste?»
«Se viene con me…» disse «Non c’è molta strada. E sì, abbiamo molte altre statuette. Mio padre non vuole mai venderne nessuna. È molto attaccato. Ma in questo momento abbiamo qualche problema e quindi…»
«Fammi strada. Sono curioso di vedere il laboratorio di tuo padre» disse Olney. Da buon cane da preda, qual era, aveva la sensazione di aver trovato una traccia molto promettente. Forse una gallina dalle uova d’oro… Un artista. Incapace di gestirsi come al solito. E lui l’avrebbe aiutato. Guadagnando la sua parte ovviamente. Ma lui non era un farabutto come tutti i suoi colleghi. Lui trattava bene la materia prima. In fondo se guadagnava, e molto, era perché c’erano altri che sapevano fare cose che lui non riusciva neanche a sognarsi di realizzare.
In cambio lui era molto bravo con il denaro. Tra lui e la ricchezza c’era un sentimento comune che negli anni si era affinato e consolidato. Sapeva trarre il massimo da ogni affare e la fortuna era sempre dalla sua. Aveva imparato a non considerare neanche più il fatto che qualcosa potesse andare storto. E aveva sviluppato un fiuto straordinario. Si sarebbe potuto vedere girovagare nel mercato di carabattole più miserabile e uscirne con qualcosa che nessuno aveva notato e che invece poteva diventare un ottimo spunto di acquisto per qualche appassionato.
E questo anche aveva compreso: che esistono al mondo maniaci, gente capace di perdere la testa per oggetti di assoluta comune irrilevanza. E che aveva bisogno di gente come lui che li faceva incontrare. Il collezionista e l’oggetto.
«Siamo arrivati» disse il ragazzo dopo aver guidato Olney per un dedalo di viuzze sulle quali si affacciavano case popolari, piuttosto malridotte.
Aprì un cancelletto che dava su un cortile grigio. Al fondo una specie di rimessa con una insegna: Dupoy, bronzi d’arte.
Olney si sentì trafiggere come se temesse di trovarsi di fronte a un imbroglio: non potevano essere nati in quel posto i bronzetti che aveva nella borsa. E l’artista non poteva essere quell’omino magro con gli occhi cisposi che armeggiava con un secchio dal quale si levavano nuvole di fumo.
«Babbo ti ho portato uno interessato alle tue statuette» disse il ragazzo.
Questi alzò lo sguardò, fissò Olney con un’aria aggressiva e poi disse, sgarbato: «Non ho nient’altro da vendere»
Olney si pentì di aver seguito il ragazzo e rispose in modo altrettanto scortese: «E io non voglio comprare nulla. Voglio solo sapere chi ha fatto i due bronzetti che mi ha venduto suo figlio»
L’uomo lo ignorò e finalmente tirò fuori dal secchio l’abbozzo di una statuina di bronzo.
«Li ho fatti io» disse alla fine.
Olney fissava la statuina. Doveva ancora essere completata e lucidata ma era chiaramente dello stesso livello, se non addirittura più bella dei suoi bronzetti. Raffigurava una lotta tra due monelli, nudi, che si rotolavano per terra.
«Bella» disse con noncuranza «E questa la vende?»
«Non è ancora terminata, non vede?»
«Lei ha qualcos’altro? Posso vedere?» Olney era agitatissimo. Quella specie di orso non aveva coscienza di quello che sapeva fare. Se tutto il resto della sua produzione era così, lui sarebbe diventato il suo mentore. L’avrebbe lanciato sui mercati che contavano di più. Sarebbero diventati ricchi tutti e due.
L’uomo lo guardò diffidente poi fece un cenno: posò le molle con il bronzetto su un tavolaccio di legno e lo invitò a seguirlo dentro la rimessa.
Un antro delle meraviglie. Ecco quello che era, pensò Olney quando entrò dentro. Buttate lì alla rinfusa un’opera d’arte sull’altra in un disordine indescrivibile. Le cose più brutte si potevano vendere a peso d’oro in tutte le aste più importanti del settore. Quelle più belle potevano trovare compratori disposte a pagarle cifre spropositate, una volta consolidata la fama di quel genio.
Olney era commosso.
«Qual è il vostro nome?» chiese quando riuscì a riaversi, dopo aver completato il giro e aver guardato una per una quelle bellezze.
«Charles, Charles Dupoy» disse orgogliosamente l’uomo. Il ragazzo si era seduto a un tavolo da lavoro e modellava qualcosa con la creta.
Olney fece un lungo respiro, poi partì all’attacco. Tirò fuori i due bronzetti: «Lo sa quanto ho pagato queste statuine?»
«Spero che quel monello non gliele abbia vendute a meno di quattromila franchi» disse l’uomo poi si arrestò e alzò la voce: «Guardi che se è qua per un reclamo le dico subito che non accetto resi. Raymond» urlò e il ragazzo scattò verso di lui.
Il padre allungò la mano e il ragazzo gli mise i quattromila franchi sul palmo.
L’uomo fissò Olney con uno sguardo acceso e si mise teatralmente in tasca il denaro, poi si mise a braccia conserte con atteggiamento di sfida.
Olney tirò fuori un biglietto da visita e glielo porse.
Quello lesse e la faccia si imporporò: «Lei è un mercante?» chiese iroso.
Olney tirò fuori diecimila franchi e glieli diede. L’uomo lo guardò disorientato.
«Questo è un anticipo del denaro che le dovrò quando avrò venduto questi due bronzetti. Quanto crede che riuscirò a venderli?» chiese Olney.
L’uomo si mise a tremare vedendo i diecimila franchi: «N.. non so» disse.
Olney aspettò qualche istante, poi disse: «Le andrebbero bene quarantamila l’uno?»
Dupoy si umettò le labbra: «Lei a quanto li vende?» chiese.
«Sessanta, forse settantamila»
«E i trentamila che mancano?» chiese l’uomo.
«Quella è la mia parte» disse Olney. Poi vedendo l’incredulità dell’uomo fece un gesto come per abbracciare tutte quelle opere «Qui dentro c’è un patrimonio. Lei ha un patrimonio. Le manca solo il venditore. Se lei è d’accordo io curerò questo aspetto. Lei dovrà preoccuparsi solo di produrre. La mia parte è il trenta per cento circa. La sua il settanta. E le faccio queste condizioni solo perché lei è un grande artista. Inoltre quando vorrà potrà sempre rompere l’accordo. Quando sarà famoso le cifre saranno molto più alte e lei potrà anche venderle da solo. Oppure potremmo continuare a fare le cose insieme, come vorrà lei»
«Io non sono mai riuscito a vendere quasi niente» balbettò Dupoy.
«Vendere non è la stessa cosa che produrre. Lei è bravissimo a farle le cose, io a venderle. Quello che le propongo è la condizione ideale per ogni artista. Conosco i canali, e so come far sborsare alla gente il denaro. Ovviamente solo se lei vorrà…»
Ecco quello era l’argomento vincente. Dare l’impressione che l’artista fosse libero. Per farsi mettere in gabbia un artista deve sentirsi libero. Avrebbe poi pensato lui a farlo lavorare. E per farlo doveva dargli ricchezza, ma quella giusta, uno stimolo per creare ma non un cuscino su cui dormire. Per questo c’era il riconoscimento sociale, le mostre, gli eventi. Oh, sì, lui, Olney era un mago in questo. Quanti artisti gli dovevano la carriera. Ma lui era fatto così: li lasciava, incredibilmente, davvero liberi, e loro non riuscivano a staccarsi da lui, e un bel gettito di denaro sonante gli arrivava ad ogni vendita.
«La proposta che mi fa è allettante…» disse Dupoy, lasciando cadere l’atteggiamento sospettoso.
Olney rimise sul suo volto la solita espressione sprezzante: anche questo faceva parte della strategia: «Ci pensi dunque e, se lo desidera mi chiami. Qualora la sua risposta sia positiva penseremo innanzi tutto a organizzare una sua mostra personale in qualche galleria prestigiosa. Con tutto quello che ha qui dentro non sarà un problema. Arrivederci»
Fece per andarsene, mentre sul volto dell’uomo si intuiva una lotta. D’improvviso questi lo fermò: «Si arresti signore» disse proprio mentre il mercante varcava la soglia.
Olney si fermò, si voltò e lo guardò con aria indifferente: «Sì?» chiese.
«Penso che accetterò la sua proposta» disse infine Dupoy.
«Molto bene. Quindi da ora siamo soci» gli disse Olney, stringendogli la mano.
«Può passare domattina nel mio ufficio di Parigi – trova l’indirizzo sul biglietto – per perfezionare il nostro accordo e firmare il contratto. L’attendo» e uscì da quella stamberga.
Sì, era proprio una magnifica mattinata quella. L’atmosfera era dolce e l’aria profumata. Olney fece qualche isolato, poi si sedette su una panchina vicina a un piccolo parco dove giocavano alcuni bambini sorvegliati dalle loro mamme.
Tirò fuori i due bronzetti, prima uno e poi l’altro e si mise a contemplarli, felice.
«Magnifici. Questi me li tengo io» disse. Li ripose nella borsa sudicia, si alzò e continuò la sua passeggiata sul lungosenna, alla ricerca di qualche affare singolare.