Ventunesimo racconto dei tarocchi
«Terremo fuori il mondo da qui» disse il sovrano. Il Gran Maggiordomo di corte, impassibile come sempre si inchinò in cenno di assenso. Quando i cancelli furono chiusi il re posò la corona sul comò al centro della parete. Quindi si tolse il mantello, si slacciò la cravatta di seta e buttò le scarpe in un angolo.
La porta a vetri, luminosa, che dava in giardino era semiaperta. La luce, fuori era frizzante e si ammorbidiva all’ombra del parco che costeggiava la dimora nascosta. Il sovrano percorse una strada di terra battuta, costeggiata su entrambi i lati da strisce di pietre di mare incastonate nel terreno, a formare una complicata decorazione. Fino a giungere a una elegante serra vittoriana. L’aprì ed entrò. I ripiani erano colmi fino all’inverosimile di cactus. L’atmosfera ricordava quella di una landa primordiale dalle forme bizzarre e primitive, lussureggianti. Il re si sedette su una sbilenca sedia girevole e si fermò a studiare la disposizione delle piante.
Una appagante sensazione di completezza iniziò a impadronirsi di lui. Il mondo. Il mondo ai suoi piedi rappresentato dalle gradinate di fusti e foglie e spine rivolti a lui come la platea di un immenso teatro, oppure, a preferenza, come il pubblico osannante di uno stadio.
E ben se lo meritava questo omaggio. Trent’anni di regno e la risoluzione di uno dei più gravosi problemi mai occorsi a un reggente di trono. Ricordava perfettamente il momento nel quale, adolescente, era stato svegliato nel cuore della notte. Il corteo funebre del corpo esanime di suo padre entrava proprio in quel momento nella corte d’onore. Vestito alla meglio dovette accogliere, senza lacrime le spoglie mortali del suo predecessore per iniziare a sostenerne l’eredità. Negli anni precedenti aveva spesso sognato un diverso avvicendamento. Lui, uomo maturo, e l’amata figura paterna avvizzita dal tempo spegnersi poco per volta. Non certo l’incidente mortale di cui era stato vittima e che aveva completamente sconvolto i suoi piani di vita.
Il re si collocò proprio al centro dell’emiciclo dove si affacciavano le gradinate con le cactacee meravigliosamente disposte. Quasi come se stare in quel centro focale permettesse di catturarne tutta l’aspra energia vitale.
Di quanta ne aveva avuto bisogno. I guai erano cominciati all’indomani della solenne incoronazione. Il primo consiglio di governo era stato burrascoso. Tutti i vecchi ministri scalpitavano: erano convinti che a un ragazzo si potessero sottrarre con più facilità i poteri che ne caratterizzavano l’ufficio. Non sapevano, gli ingenui, che egli li osservava da tempo. E che di ognuno conosceva ogni più piccolo dettaglio di carattere, di azioni e di idee.
Prima che arrivasse la grande Mattanza, senza dare nell’occhio era riuscito a eliminare in un modo o nell’altro, palesemente o segretamente, tutti quelli che avevano creduto di ostacolare la sua ascesa al potere. Poi la Mattanza.
Molti governi mondiali erano svaniti nel nulla, antiche strutture di potere si erano sbriciolate in poche settimane. Nel caos e nel disordine, l’unico che aveva tenuto duro era stato il lui e il suo stato. Alcune delle decisioni che negli anni precedenti gli avevano gettato addosso le ire e i motteggiamenti dei nemici ora si rivelavano in tutta la loro saggia previdenza. Primi nella prevenzione, primi nella lotta alla Mattanza, primi nella ripresa.
Il re cercò di assorbire la forza delle sue amate piante con un richiamo mentale. Molto biocentrico. E il tempo si fermò, esattamente come si era fermato alle prime battute del disastro. L’aveva provocata lui stesso quella fermata, anche se nessuno se ne era accorto. Fuori dal tempo aveva potuto andare avanti e vedere quel che sarebbe successo se le cose avessero seguito il loro andamento naturale. Ma lui era lì proprio per quello, per non farle andare così.
Quando era tornato dalla bolla temporale, sapeva esattamente che cosa fare. All’inizio le sue soste nella serra della Dimora nascosta erano quasi giornaliere. Con l’esperienza vennero diradate fino alla conclusione della Mattanza. La gente al termine si era guardata intorno: dappertutto c’erano le macerie delle società disgregate. Ma lì no.
Di nuovo quel senso di acuta soddisfazione penetrò nella sua mente.
Era arrivato il momento dello scambio.
Le piante si presentarono all’appello, sorridendo.
Il re le accolse in sé come amiche e sorelle.
Poi salutò il mondo che stava fuori dalla tenuta. Quindi si inchinò alla folla vegetale che si stava radunando. Un vecchio saguaro entrò in evidenza. Gli sorrise.
Il re si avvicinò a lui. Mise le mani sulla sua superficie spinata. Le spine penetrarono nei palmi ma non fu doloroso.
Quando il saguaro ebbe terminato, il corpo del re venne adagiato sulla sedia sbilenca, esanime.
Il prezzo da pagare per la salvezza del suo popolo, del suo stato.
Le piante onorarono per un’ultima volta il monarca quindi svanirono, una per una.
Poi svanì la serra e infine la Dimora nascosta. In mezzo a uno spiazzo polveroso rimase solo la sedia con il corpo seduto serenamente, privo di vita.