Nel definire il rapporto complesso che esiste tra etica e poesia Shelley ribadisce con forza estrema un concetto molto importante. La poesia non deve riportare nel suo paradigma di contenuto né le idee morali dell’autore (in quanto esse rispecchiano quelle del suo tempo), né deve legarsi a quelle del suo tempo e del suo ambiente. Se facesse, questo tarperebbe le ali alla facoltà che sovrintende alla natura morale dell’uomo. Facoltà poetica e facoltà morale vanno a braccetto, e in entrambi i casi non sono legate né temporalmente né concettualmente a ciò che viene accettato come patrimonio intellettuale proprio di un tempo ben preciso. Piuttosto si elevano oltre le idee ammesse e considerate patrimonio comune, perché devono esplorare nuove dimensioni e inedite possibilità. Per questo il poeta, pur essendo consapevole di stare operando anche nel campo dell’etica deve rifiutare tutte le etiche: con la sua opera poetica potenzierà le facoltà mentali degli uomini perché ne trovino altre e, così operando, egli stesso indicherà nuove strade. Il contrario lo farà apparire un intellettuale moraleggiante che ‘abdica al trono del suo più vasto dominio’. Un servo dunque della mentalità comune, che non ha nulla da dire né da indicare agli altri uomini.
Stando così le cose al poeta è demandato un compito educativo di primaria importanza: trascendere la poesia, trascendere la morale per tracciare rotte mai percorse che portino al ‘nuovo’, al ‘più vasto’, all’inesplorato. La libertà che richiede tale impegno si conquista con un duro esercizio di ‘rinuncia‘ e ‘infrazione‘, attraverso il quale si spezzano i legami con l’ovvio, il banale, il luogo comune. Così è la ricerca della bellezza, permeata da quella del bene, del giusto e del vero.