«Andiamo a vedere il lago?»
Lucia, della famiglia Tiraboschi, arrossì. Parlava timidamente e l’unità di ogni sua vicenda faceva sì che ella minuziosamente pensasse, così come minuziosamente vestiva e compiva ogni altra azione del suo viver quotidiano.
Sempre all’erta, sempre rannicchiata sotto le falde di un grembiale troppo grosso per essere usato in cucina e troppo netto per le pulizie di casa, Lucia esternamente aspirava al nulla di una quotidianità serena, cheta e pacificata, ma sotto codesta apparente aspirazione – «Mi so contentare, io!» diceva sempre stringendosi nelle spalle – covava un foco bruciante.
Qualcuno sorridendo potrebbe osservare che son mille e mille le signorine da maritare che si trastullano nel pensiero d’un uomo che mai non giunge, e che poi quando arriva l’è sempre assai più modesto e minchione nella realtà di quanto lo sia nella fantasia. A quel punto però va bene tutto, che quando l’età s’avanza e il focolare rimane voto per troppo tempo, chiunque poi lo possa empire vien accolto come il cappone di Capodanno, pur sotto una neve gelida. A quel punto non val più che egli, il lui, cioè l’oggetto delle tante fantasie puzzi di tabacco, sia peloso come un orso e come l’orso abbia la stessa grazia nel porgere qualche complimento, peraltro raro, prima di addormentarsi voltandosi di lato nel nido-letto della casa. C’è e tanto basta.
Ma prima…. quante fantasie, quante speranze che dipoi s’ammansiscono in uno struggente desiderio di normalità.
Quando essa normalità arriva poi, il carattere s’indurisce e nulla si può più fare. Alla poesia si sostituisce l’asprezza e già è tanto se i due colombelli, schiena contro schiena grugniscono un saluto serale oppure, caso assai più frequente, s’addormono semplicemente ignorandosi, anzi grazie all’ignorarsi, ché se uno dovesse prestare attenzione alle chiacchiere, alle fisime e a quant’altro corre per la mente nel frangente del pigliar sonno, ben grave danno sarebbe per la salute mentale dell’altro poiché non vi sarebbe consolazione alcuna che possa far da argine allo struggimento per la pena d’essersi lasciato impaniare.
Anche questo concetto, a dir la verità pareva ostico alla Lucia, perché ella, anima semplice, viveva – prima – di devozione muliebre e immaginava se stessa protesa verso l’uomo della sua vita a soddisfare ogni sua velleità e richiesta.
Sul fronte del lago v’era la sodale della Tiraboschi che vestiva i calzoni neri di zuava e rideva, e contava e smaniava, protesa com’era ad apparire piacente tal che ogni drudo ch’esse incontravano ella sensibilmente alzava il tono della voce e diveniva via via più stentorea fin quando l’indifferente maschio, magari aggrottato e avvolto nel suo cappotto, o insensibilmente volto alla contemplazione della placida superficie acquorea, o ancora intento ad aspirare il fumo azzurro del sigaro o della pipa non spariva verso l’orizzonte ed allora ella si chetava e continuava con un tono più normale a fare le solite confidenze alla Tiraboschi che lei, se avesse voluto, avrebbe potuto accasarsi con chi voleva ma che aspettava per pigliar l’occasione più propizia, che ella il suo maschio lo voleva forte, tutto d’un pezzo, possibilmente principe azzurro, bello e anche virile possibilmente.
La Lucia, nel sentir profferire quella loquela si stringeva nelle spalle e sognava il viso aquilino e disteso di una specie di angiolo che discendeva verso di lei, la fissava con intensità e languore e se la rapiva in alto portandola con lo sbattere delle sue ali che, a veder bene erano di mille colori, proprio come gli angioli dei dipinti dell’Angelico, sì, proprio il Beato che lei aveva visto una volta nei libri di storia dell’arte.
S’erano appena acconciate ad occupare una panca di fronte alla riviera lacustre quando ecco passare due esemplari del sesso maschile che più secsi di così si muore.
Aveano essi il ricciolo ribelle che scendeva sull’occhio languido, tipico dello sciupafemmine, il petto largo e le braccia imbottite, la vita fine e piatta che si ingrandiva in chiappe possenti e gambe come colonne che guizzavano da sotto le braghe di tela di gins tutte sdrucite.
Molleggiavano un’andatura rubata e dardeggiavano con gli sguardi voraci tutte le opposite rappresentanti del bel sesso, cinagottando piano tra di loro quando ne vedevano una e ridacchiando quando questa non parea soddisfare il loro canone estetico. S’aveva l’impressione persino che essi imitassero l’andatura di tutte le baccagliate che al loro sopraggiungere ancheggiavano vieppiù visotsamente per sperare di attirar loro nell’invescante tranello del “Ciai da accendere?” o del fatidico “Che ora è, scusa” con lo scopo dello stabilire e del prolungare una qualsiasi forma di conversare, nell’attesa che qualcosa di più arrivasse e soddisfacesse la brama furiosa che le assaliva.
Ma i due tiravano dritto e lasciavanle deluse, regalate appena d’una risatina sarcastica o d’uno sguardo di compassione.
Finché arrivarono alla panchina dove eranvi le due amiche che manco s’erano accorte di tutta quella lascivia profusa con così totale generosità e spreco.
Esse infatti stavansi scambiando querimonie sulla infedeltà del maschio accostando esempi di vicine e conoscenti che aveano pianto deluse sulle loro spalle quando erano state affondate da un vaffa… ben direzionato dato dal succitato maschio infedele che s’era stufato di ambire e cacciare senza ottenere nulla di concreto in cambio. E le due giuravano che loro non si sarebbero comportate così, e che un momento di piacere val ben un rischio, peraltro quasi certo d’infedeltà, e che forse la cosa la andava letta al contrario che non eran gli altri a dover essere per forza infedeli, ma che se la sarebbero presa la mazzata essipure se loro, cioè le due amiche, l’avessero suonata con l’istesso batacchio dell’infedeltà andando or con l’uno or con l’altro a piacimento della femmina che gioca e comanda il gioco.
Naturalmente esse sapevano bene d’essere illuse: la Tiraboaschi al pensiero arrossiva tutta fin dentro l’ugello polmonare che traccheggia l’aria in entrata e uscita, e in fondo anche la scafata amica al sol pensiero del corpo maschile si vedeva prender da una tale soffocazione che dovea ventolarsi sentendosi mancar l’aria.
Incuranti della loro praivasi, le due signorinelle avevano forse tralasciato di parlare un poco più forte perchè i due doveano averle udite nel mentre che tiravano a un passo di lì.
L’occasione era troppo ghiotta, sebbene la merce non fosse proprio di prima scelta, tuttavia qualche formetta soda traspariva di sotto la gonnella o la maglietta. I due belloncioni si strizzarono l’occhio e facendo finta di nulla andarono ad accasciarsi sulla medesima panchina di dove eranvi le due amiche.
Esse al loro sopraggiungere di fecero di bragia e si chetarono del tutto, rimanendo mute e soffocate al guardare quell’estetica abbondanza e formosità moscolare e la regolare fisionomia dei loro nasi e la trasparenza acquorea delle loro iridi.
I due se la ridevano tra loro mentre con indifferenza ciarlavano sottovoce lanciando solo ogni tanto qualche sguardo in tralice.
La Tiraboschi voleva sotterrarsi, che ella non si reputava menché degna di aspirare allo sguardo di quello di destra che le pareva più fine dell’altro, bello pure lui ma un po’ più grossolano.
L’amica invece puntava proprio all’altro lottatore, che a lei gli efebi troppo sottili non garbavano troppo e mirava a qualcosa di più voluminoso da stringere e da accogliere. Costei partì all’attacco con decisione, come una perfetta domatrice di tori e cercò di agitare lo straccio rosso del fascino tirandosi un po’ su la gonna e agitando le spalle per scuotere tutta la pettorina protundente che occupava la facciata della carrozzeria. La Tiraboschi invece, più modesta si schermiva e sorrideva stolidamente.
A questo punto i due si voltarono e fecero una faccia innocente e gentile: salutarono con un pretesto le due annichilate e volsero le loro luci che esprimevano disarmante frescore e adolescente pudescenza verso le luci delle due ragazze che quasi vennero meno. Poi iniziarono una piacevole conversazione, e a un certo punto si divisero. Il bel sottile andò a sedersi vicino alla Tiraboschi perchè con essa avea iniziato uno spunto di conversazione a proposito di certi luoghi da lui visitati che ella desiderava tanto tanto, oh, sì proprio tanto vedere e sarebbe stato bello che egli a lei raccontasse ciò che avea veduto, mentre lo stallone si accostò con le sue gambone e il suo vitino su cui assurgeva un petto smisurato sormontato da spalle sovrabbondanti verso le gambe dell’amica che vedendoselo così da vicino, affannavasi a immaginare ciò che non si vedeva e le sembrava di svenire per così grande fortuna e incredibile sorte. L’atmosfera si riscaldava e l’argomento divenne alquanto licenzioso, al che il bisonte, non ritirandosi affatto e accettando ogni provocazione cominciò a motteggiarla con piccole insinuazioni, battute mordaci e provocatorie, allusioni e salacità che invece di indispettirla la attizzavano a puntino e la preparavano, nella sua mente, al sacrificio che ella avea atteso e bramato e immaginato da una vita.
I due profumavano di buono, erano belli, erano gentili, stavano al gioco e le signorine smaniavano. D’un tratto l’amica disse che proprio lì vicino, se volevano, potevano salire su alla sua magione, a prendere qualcosa di caldo che l’atmosfera infreddava, essendo ormai la prossimità della sera vicina. La Tiraboschi lanciò uno sguardo apprensivo e di parziale disapprovazione per la sfacciata sfrontatezza e audacia dell’amica, ma con un sospiretto si apprestò a far intendere che se proprio doveva, ebbene sarebbe andata anche lei a sorbire la calda bevanda.
I due annuirono, furbi. Tutti si alzarono dalla panchina ridendo. Poi il lottatore prese la mano dell’amico, gli stampò sulla bocca un bacio e, avvinghiandolo con il braccio sul fianco, disse all’amica della Tiraboschi agghiacciata e a bocca secca come una mammalucca: «Vada per il tè. Allora, dov’è la tua casa?»