«Herr Fischer?»
«Che c’è Kurt?»
«Questo, alla battuta trentasette, è un do diesis o un do naturale?»
«Aspetta, hai detto battuta trentasette… devo controllare… ecco battuta trentasette… sulla sillaba fru?»
«Sì, sulla sillaba fru»
«Do diesis, è un do diesis.»
«Grazie, Herr Fischer»
«Allora pronti? Riprendiamo da battuta ventotto… Nisi…»
Parte l’orchestra, una battuta vuota e poi inizia il coro.
«No, Maximilian.» Fischer interrompe l’esecuzione «Il tenore solo comincia con il fa diesis»
«E io che ho fatto?» ribatte il solista.
«Di sicuro non era un fa diesis» risponde Fischer.
«Lo era»
«Scusa Wiessel, puoi fargli un fa diesis?» chiese Fischer seccato al primo violino.
Wiessel eseguì l’ordine.
«E io che cosa ho fatto?» chiese di rimando il tenore.
«Scusate, scusate… Wiessel, ho detto un fa diesis» fece Fischer sempre più corrucciato.
«E allora? Questo è un fa diesis» disse confuso Wissel.
«No, hai fatto un do naturale» ribatté il direttore d’orchestra surriscaldandosi.
«Ma siamo diventati matti? Questo è un FA DIESIS» disse piccato il primo violino e lo suonò nuovamente strappando l’archetto sulla corda.
«Vi state sbagliando tutti e due» disse sorridendo ironicamente il tenore «Quello che ha fatto Wiessel non è né un fa diesis e neanche un do naturale. È chiaramente un re»
Wiessel rise istericamente alzando il violino al cielo: «Ma sentilo. Un re. E allora questo che cosa è?» gli chiese canzonandolo suonando un re.
«Ecco questo è un fa diesis» disse il tenore.
«BASTA» strillò Fischer «Vogliamo andare avanti? Battuta ventotto. Anzi no, prima accordiamo gli strumenti.»
L’orchestra iniziò la solita cacofonia disordinata dopo che l’oboe ebbe dato il la 415 per l’accordatura barocca.
Fischer si dispose ad aspettare pazientemente che tutti si fossero intonati, ma il tempo di accordatura si dilatava rispetto ai pochi minuti necessari. In realtà lo strepito nella sala da concerto sembrava suggerire l’idea che i musicisti fossero in difficoltà.
Fiscer appoggiò la bacchetta al leggio, si sedette e aspettò sconsolato.
Qua e là nell’orchestra cominciarono ad esserci piccole baruffe e toni di voce più concitati.
«Alza l’intonazione: non senti che quello che fai non è un la?»
«Parla per te. Il tuo non è in tono. Il mio sì. Senti»
«Ehi voi due? Che fate? Non sapete più accordare un violino?»
«Guardati il tuo clarinetto: è un tono sotto»
«Sbagliato: è due toni sopra. Sentite l’autentico la»
«Ehi oboista dei miei stivali: non senti che fai il sol diesis invece del la?»
e via così.
Fischer faceva uno sforzo per contenersi ma diventava sempre più violaceo. D’un tratto esplose. «BASTA! Che vi prende?» urlò, mettendo a tacere tutta quella baraonda.
Nel silenzio prese la parola Wiessel, il primo violino: «Non abbiamo capito bene il la dell’oboe» disse.
«E allora, porcomondo, fateglielo ripetere» sbraitò Fischer.
L’oboista controllò bene lo strumento e poi emise una lunga chiara nota.
Fischer allargò le braccia e disse: «Visto? C’era bisogno di tutto questo caos? Adesso accordate gli strumenti vi prego»
I professori iniziarono a soffiare, a tirare corde, a sbuffare e a rivolgersi inviperiti gli uni contro gli altri.
«Ma che fai?» dicevano i violinisti ai clarinettisti.
«Se il vostro è un la, quello dell’oboe che cos’è?»
«Fatevi i fatti vostri, incompetenti»
Gli ottoni ridevano e dicevano: «Volete sentire un vero la? Eccovelo» e pompavano aria dentro le trombe e le tube ottenendo una squaquerata di suoni da far rabbrividire. Allora si guardavano confusi e poi cominciavano ad accusarsi a vicenda di non fare il la giusto e di non saper suonare.
Fischer cominciò a strapparsi capelli e poi cacciò un ruggito: «Professori, smettetela. Si può sapere che cosa sta succedendo?»
Tutti iniziarono a parlare insieme. Fischer spezzò la bacchetta e si mise a calpestarla sul podio in preda a una crisi di nervi.
I professori tacquero poi cominciarono a bisbigliare finché il sussurrio arrivò al primo violino che alzò la mano.
Fischer gli diede la parola.
«Herr Fischer, non riusciamo ad accordare gli strumenti»
«Questo l’avevo capito» mugolò Fischer «ma spiegatemi il perché»
«Non sente?» chiese il primo violino.
«Che cosa dovrei sentire?»
«Ascolti»
Fischer tese le orecchie. Subito non sentì nulla. Ma facendo bene attenzione un suono singolare iniziò a penetrargli in testa. Era acuto, insistente e mutava in continuazione. Provò un senso di vertigine perché quell’ondivaga sensazione sonora tendeva ad annullargli ogni punto di riferimento tonale, in altre parole lui, Herr Fischer, che possedeva l’orecchio assoluto più preciso del mondo, iniziò pian piano a perdere l’orientamento sonoro e a non sapere più distinguere un suono dall’altro.
Si fece pallido e una goccia di sudore freddo gli colò sulla manica.
«Da dove viene questo rumore?» chiese balbettando.
«Per questo non riuscivamo ad accordare nulla» disse Wiessel.
«Sciocchezze» ribatté Fischer riprendendosi «potrebbero essere gli operai che ho visto nell’atrio. Adesso andrò a dirgliene quattro, al Sovrintendente. Non voglio lavori né operai quando provo» e uscì dalla sala sbattendo la porta antincendio.
Wiessel alzò le spalle guardando il primo violoncello ed emise una risatina nervosa.
Barcollando, intanto, il direttore d’orchestra non si stava dirigendo verso l’ufficio del Sovrintendente. Si mise piuttosto a seguire la traccia di quella mostruosità fonica perché voleva scoprire da che cosa era generata e perché portava con sé tutto quel disastro armonico.
Per un po’ girovagò nei corridoi del teatro cercando un significativo mutamento di intensità: invano. Ovunque si trovasse il fischio era sempre uguale, eccetto il fatto che cambiava repentinamente e incessantemente di tono.
Poi giunse davanti alla sartoria. Qui ebbe la netta sensazione di avere più vicina la sorgente. Aprì la porta e una frequenza lacerante lo investì: per poco non lo abbatté sul pavimento.
Istintivamente si portò le mani alle orecchie per difenderle, ma di fronte all’aberrazione di quel suono non c’era difesa: penetrava direttamente in testa, senza passare attraverso le orecchie.
«Dio, che fastidio» disse con sgomento e cominciava a sentirsi smarrito.
Entrò vivacemente e richiuse la porta. La fonte di quella specie di miagolio si trovava proprio davanti a lui. Ebbe l’impressione di trovarsi davanti a qualcosa di immenso, ed effettivamente il manichino di un uomo gigantesco campeggiava in mezzo alla sala vestito di un prezioso drappo di velluto rosso. Il costume di scena (evidentemente si trattava di quello del don Giovanni di Mozart) era assai elaborato: il corpetto era intessuto con fili che sembravano d’oro mentre la casacca e i pantaloni erano in azzurro ricamato di fili d’argento.
Fischer fu attratto da quella figura, nonostante l’aura malvagia che emanava e si avvicinò.
Mentre si accostava, un brivido di paura gli sconvolse l’animo in profondità: gli era parso che quegli occhiacci di vetro si fossero voltati e lo avessero osservato con intenzione. Egli non aveva timore, no; ma…
Si guardò intorno. Non c’era nessuno e d’un tratto quel luogo gli sembrò come abbandonato da molto tempo. Una scossa nervosa gli attraversò la schiena e un’altra goccia di sudore colò sulla manica.
«E due» gli parve di udire DISTINTAMENTE nella sua mente. Si voltò di soprassalto, ma non c’era nessuno. Così deglutì e si mise a osservare una nebbiolina azzurra che filtrava da una tomba del terreno.
Il suo primo istinto fu quello di scappare, poi volle avvicinarsi e vide che lentamente la nebbia prendeva forma, si agitava e dava corpo a un essere che si confuse con il manichino mentre l’espressione sembrava quella di un essere addormentatosi nel mare eterno del tempo secoli prima. Il direttore d’orchestra prese il coraggio a due mani e gli si avvicinò.
D’un tratto il rumore malefico ruppe la cortina che ancora lo ancorava FUORI dalla sua mente e gli penetrò direttamente in mezzo al cervello: ebbe l’impressione che una sottile lama spezzasse i due lobi penetrando nei recessi più profondi del suo corpo e andasse a frugare qualcosa. Si sentì mancare e si portò lentamente le mani alla gola mentre avvertiva che il battito cardiaco rallentava e gli occhi si offuscavano.
Mantre si afflosciava proprio sotto il mantello del manichino ebbe ancora un lampo di disperata coscienza ed emanò un arrochito: «Perché?» che si spense in un rantolo.
Lentamente il manichino si animò, tuffò una mano dentro la sua testa e ne estrasse una goccia perlacea traslucida. Con l’ultimo spasimo di vita che ebbe fissò il suo sguardo su quell’oggetto.
Vide la mano guantata del don Giovanni premere la perla.
Quindi la vide rompersi e da essa fuoriuscire un turbine colorato violento che raccolse tutto ciò che c’era nella sartoria e lo fece volare in circolo, rabbiosamente, mentre il turbine cercava un varco, una fessura una qualsiasi uscita. E poi, come emanata da quell’aura, nota dopo nota come uno stillare di acqua fresca, ecco definirsi una musica, anzi LA MUSICA, quella che egli Fischer aveva cercato per tutta la vita e non aveva mai trovato. Si era arrabattato durante ogni sua direzione per distillare quell’essenza immensa, ma sempre gli era parso di non potersi mai avvicinare a ciò che egli intendeva e che adesso vedeva chiaramente davanti a sé.
Protese le mani e poi si abbatté al suolo, esanime.
Quando lo trovarono, ore dopo, in mezzo a tutto quel disordine, i professori che lo avevano cercato si chiesero la ragione di quell’insondabile sorriso che gli disegnava il volto. Lui, l’arcigno, incontentabile, pignolo, austero, musicista dall’orecchio assoluto più preciso del mondo.