I
«Una gran figura e poi… dritto come un fuso. Un bel pezzo d’uomo» la Menegoni si sporse sul banco del negozio dove la siora Smantegazzi ascoltava, avida di novità.
«E com’è, come aspetto voglio dire….» chiese avida quella.
La Menegoni fece una smorfia roteando la mano, poi si accostò vieppiù alla pettegola sodale e mormorò: «Un fisico…. Un fisico… ha tutta l’aria d’essere un chel’ga studià… non un del popolo.»
Le due ridacchiarono e si fecero accorte perché in quel momento stava passando un uometto basso e grassoccio che era il di lei marito, della Smantegazzi cioè, che di professione faceva lo scaricatore di cassette e di òbbi era il padrone – astratto, ché degli affari si occupava del tutto lei, la moglie – del Negozio di Verdureria e Drogheria Smantegazzi Bruno.
«Pettegole» mormorò tra i denti il poveretto mentre passava di lì e le guardava, faticando sette camicie a portare nel retrobottega una pila di scatole piene di Regina del Ghiaccio, prorompenti teste d’insalata avvolte nel cellofàne e roride di umido.
«A sentir te» rispose acida la moglie ché sorda non era affatto e anzi detestava cordialmente il carattere del coniuge «non si dovrebbe spostar la testa dal registratore di cassa o dall’albo delle fatture».
Come a dire che lei, costretta a quel giogo dal sacro vincolo matrimoniale, doveva pur prendersi qualche libertà per sopportare il peso della condizione infame.
«E non dimenticarti a che cosa ero destinata, se non ti avessi sposata» aggiunge querimoniando un po’ più del dovuto con una vocetta che stava virando allo stridulo. Poi rivolgendosi alla comare. «Scuola di ballo. Scuola di ballo del Teatro Alla Scala, Milano, sissignora. Avevo fatto il provino e mi avevano preso»
«Ma va dar via i ciàp» rispose sgarbato il marito riemergendo dalla tenda ad anelli che divideva il banco dall’angusto spazio nascosto alla vista dei clienti «Te e la tua scuola di ballo. Quello che ti voleva là, voleva qualcos’altro…»
«Non ti permettere cialtrone» strillò la dama stringendo i pugni.
«Sì, sì» mormorò l’ometto uscendo dal negozio per scaricare dall’apecar il resto delle compere fatte ai mercati generali.
«Se ascoltassi quell’imbecille non dovrei parlare con nessuno. Non dovrei avere amiche, sarei più reclusa di una suora di clausura»
«Bum» fece l’altro facendo ondeggiare cassette piene di cestini di fragole «Te della clausura non c’hai neanche la cognisione. Te e la clausura siete come il diavolo e l’acqua santa»
«Io me ne vado. Se so qualcosa di più del nuovo proprietario di Cascina Molnaghi vengo a dirvelo» chiuse la Menegoni, riponendo la merce nella borsa a ruote tutta lisa.
«Eh, fate così, che io sono chiusa qui dentro come un passero in gabbia»
«Un tacchino in gabbia, un tacchino» commentò il Bruno e ridacchiò. La moglie lo sguardò furente e se ne andò nel retrobottega sbatacchiando di malagrazia la tenda.
La Menegoni provvide a far sparire la sua presenza il più velocemente possibile. Poco dopo dallo stanzino si udirono provenire strida altissime d’una litigata sonora. Ma era la norma e nessuno ci fece caso.
II
Il commendator Egidio Tagliabue, sindaco di Frigerio, si lisciò tre volte la pancia enorme che emergeva dal doppio petto blu. Per il suo insediamento in comune avea fattasi fare una scrivania apposita con una arcatura rientrante nel centro, nel luogo ove solevasi sedere per poter avere le pratiche più comode e vicine all’occhiale senza doversi soverchiamente discostare a causa della sua abbondante pinguedine. Sonò un campanellino e subito comparve una vecchia incartapecorita avvolta in un grembiale nero con un vistoso e immacolato colletto bianco: «Desidera?» fece quella gracchiante.
Il commendatore fece la solita smorfia: era una reazione incontrollata alla vista dell’orrida vecchiarda, come se il suo occhio per abituarsi a quella ripugnanza dovesse contrarsi necessariamente, poi si ricompose e disse: «La pratica Molnaghi?»
«Risolta. Il geometra mi ha portato oggi l’atto di cessione» disse traendo da una cartellina un foglio protocollo pieno di timbri e di firme.
L’Egidio gongolò. All’atto della sua elezione aveva fatto voto che durante il mandato egli avrebbe assolutamente posto fine a quell’annosa e incresciosa questione. Una cascina diroccata, prospiciente alla piazza del paese che non interessava a nessuno e da decenni decadeva senza possibilità d’intervento avendo il destinatore testamentario vincolato il passaggio della proprietà al fatto che l’Ente Pubblico destinatario del lascito – il Comune appunto – la trasformasse in edificio con una qualche vaga aderenza sociale, fatta salva la legittima trasformazione di una buona parte di essa, che un enorme complesso di edifici in realtà accatastava, in appartamenti d’abitazione ad uso privato. Il problema era che ci voleva qualcuno che ci buttasse dentro qualche centinaio di migliaio di euro e nessuno, dopo aver visto lo stato della costruzione e i vincoli testamentari e catastali ch’avea, aveva voglia di impiegarci meno un baiocco. La cascina era così invecchiata e decaduta, e più decadeva, più era difficile trovare un pollo che si impegnasse per l’acquisto, dimodoché il comune potesse sbloccare il testamento per poter procedere alla vendita e incassarsi i denari che sarebbero serviti per fare qualche opera pubblica come il giardinetto davanti all’edifizio scolastico richiesto da così tante mamme o l’ampliamento del cimitero richiesto da sì tanti vegliardi.
Adesso, con quell’atto in mano avrebbe potuto dire a tutta la cittadinanza, opposizione compresa, che lui, Egidio Tagliabue era riuscito in poco più di due mesi in ciò che le precedenti amministrazioni s’erano affaticate per anni senza giungere a pigliare altro che un pugno di mosche.
Egli dispiegò l’atto, lo lesse e benedì in cuor suo il rinco che era caduto nella trappola, nella fattispecie il signor Carlo Rustici di professione architetto.
“Bene, caro Rustici,” pensò, “se siete tanto ricco quanto coglione, avrete il vostro bel daffare per non finire in perdita secca” e ridacchiò stringendosi sulla pancia l’atto.
In quel mentre entrò il messo comunale: pareva divertito.
«Che c’è?» chiese il Tagliabue mentre si ricomponeva.
«Quello della cascina Molnaghi non perde tempo» osservò il vigile deponendo il chepì sulla scrivania del suo superiore.
«Cioè? Spiegatevi» fece il sindaco con un vago sentore di allarme.
«Ci sono già i ponteggi sulla parete esterna che dà sulla piazza.»
«Per fare che? Non si è ancor parlato di permesso edilizio… la vendita è appena avvenuta…» biascicò il Tagliabue.
«Gliel’ho detto» rispose il vigile, «ma esso ha detto che se ne strafrega dei permessi, che se ha da farli li farà ma che avrebbe cominciato subito i lavori.»
«Non può» strillò il sindaco battendo un pugno sulla scrivania «La cascina Molnaghi dà sulla piazza del paese. Quel che fa deve essere in armonia con lo stile architettonico del Piano urbanistico previo permesso della Commissione edilizia»
«Detto anche questo» fece il messo, «ma quegli ha dato di spallucce e ha squadernato un editto mai abrogato del 1896 o 1897 che dice che in caso di gravità di riparazione o roba del genere i lavori possono essere iniziati anche senza permesso»
Il tagliabue fu colto in contropiede: esisteva davvero un tale editto? Se esso non fosse davvero stato abrogato sarebbe stata la rovina. Chi avrebbe ancora dovuto sottoporsi alla forca caudina della Commissione edilizia che egli aveva avocata a sé come emanazione sublime e manifestazione verace del potere che avrebbe detenuto per anni quattro?
«Andiamo a fondo della faccenda. Mi accompagni alla Molnaghi» fece il sindaco alzandosi pesantemente dalla sedia e afferrando il cappello appeso alle ventitré sul porta abiti.
Il messo ridacchiò e disse soltanto: «Volentieri» con un’aria un po’ troppo sorniona per esprimere una divota fedeltà al suo capo che iniziava ad essere sgomento e titubante.
III
«Ohé, del ponteggio» fece il Tagliabue facendo trombetta con le mani per amplificare vieppiù il suo vocione.
«Che c’è?» chiese un volto nero come il lucido da scarpe che si affacciò dal telo già tirato per coprire l’impalcatura.
«Dov’è il tuo capo?» chiese il Tagliabue indispettito a veder quel colore, lui che si piccava d’essere italiano al cento per cento e disdegnava qualsiasi nazionalità estera che calpestasse il sacro suolo italico, nonché propugnava l’idea che i lavori andassero assegnati alle ditte che impegnavano solo personale nazionale, per «impedire» diceva lui «che alcuni si ficcassero nel cerebro di addivenire entro i confini patrii per soffiare il lavoro alle nostre nuove generazioni». L’è che le nuove generazioni non lo volevano affatto quel lavoro e quando alcuni gliel’aveva fatto notare, al Tagliabue, che le cose stavano proprio così, lui s’era scandolezzato e aveva ismaniato che i giovani non eran più quelli d’una volta che avevano, come lui, tirato su la patria dall’infimo e l’avevano resa grande.
«Sono io il capo» rispose quegli sfoggiando un sorriso bianchissimo.
Il Tagliabue torse il naso con aria schifata, poi ingollò due bocconi d’aria e intimò tronfio: «Ismettete subito il lavoro ché non ci sono permessi né autorizzazione della commissione edilizia».
«Mi spiace, i miei ordini sono contrari» disse quegli sbandierando un foglio «Qui si dice che è tutto autorizzato in procedura d’urgenza»
«Voglio parlare con il proprietario» urlò il Tagliabue.
«Eccomi» e dal telo spuntò un secondo volto appartenente a un tizio segaligno, con stoppie gialline in testa che non aveano conosciuto pettine né spazzola da un bel po’. Costui abbassò le lenti rotonde per rimirare le fattezze del Tagliabue: «Chi siete voi?» chiese.
«Come chi sono? Sono il sindaco. Egidio Tagliabue. E vi ordino di cessare i lavori»
«Oh, bella e perché? Ho acquistato il podere togliendovi una grossa pellazza bollente dalle mani e voglio iniziare subito. Sa…» fece egli abbassando il tono in aria di confidenza «perché non si dica che la cosa pubblica è sempre in ritardo sui tempi di esecuzione dei lavori. Lei m’intende…»
«Non intendo un bel niente.» strillò l’Egidio «Prima i permessi. I PERMESSI» disse sottolineando l’ultima parola.
«Eccoli» disse la figura segaligna e prese dalle mani del capocantiere il foglio per isbandierarlo nuovamente.
«Venite giù» ordinò imperioso il Sindaco «Voglio veder cos’è ‘sta carta»
I due sparirono dietro il telo e riapparvero in una apertura all’altezza del suolo ove finiva una scala a pioli.
Si accostarono e diedero il foglio all’alto funzionario dello Stato.
Costui glielo strappò di mano e vide l’intestazione: Prefettura della Repubblica seguita dalla dicitura: Ufficio del Catasto nazionale.
Sbarrò gli occhi, lesse la pappardella, rivoltò su e giù le carte, controllò i timbri, i controtimbri, le marche e le firme e alla fine ridiede oltremodo seccato i papiri al proprietario che giubilava sconsideratamente alle sue spalle.
«Mi sembra incredibile ma temo che abbiate ragione voi. Tuttavia…» si precipitò a precisare puntando un melodrammatico indice contro i due che se la ridevano «dovete presentare entro novanta giorni le carte necessarie per…»
«Da qui a novanta giorni i lavori saranno terminati e le migliorie apportate andranno intese come definitive e approvate in virtù del rito abbreviato dell’esecuzione» disse l’architetto Rustici.
«Vedremo se avrete finito» proruppe in tono di sfida il Tagliabue.
«Avremo finito!» disse definitivo il Rustici facendo atto di rientrare nel suo cantiere.
«La vedremo» rimarcò il Sindaco con l’umore guasto e, preso il messo comunale che sghignazzava da parte sua alle spalle dell’ufficiale di stato, suo principale, se ne andò inviperito borbottando alcune male parole che non pare opportuno riferire qui.
IV
«E quel gran pezzo del capomastro?» bisbigliò piano la siora Smantegazzi alla di lei sodale, la fiera Menegoni che era ritornata per la seconda volta nell’andito angusto del negozio per portarsi via una qualche patatina piattellina che avea dimenticato la prima volta ch’era andata lì, sempre quella mattina.
«Chi? Il moro?» fece l’altra con un sorriso lubrico.
«Lui. Cià due spalle…» mormorò la Smantegazzi quasi sventolandosi.
«Non solo quelle dicono…»
«Ah sì?» guatò curiosa l’amica con una voglia di sentirsi dire su che cosa del moro si pettegolava in paese.
«Eh, sì» concluse filosoficamente l’altra, lasciando trapelare un sacco d’intendimenti sottintesi.
Dal retro udissi un pernacchione fatto con la punta della lingua e la mano a cono davanti alla bocca e dipoi un secco dire: «Befane. L’è ora che pensiate alla cassa morto più che alle manovelle d’i pinpalùn».
«Va a ciapa i ratt, cagadubi!» sbraitò la Smantegazzi al marito, poi rivolta alla comare: «E l’alter che fa?»
«El a ciapasi cun el sindac» rispose la Menegoni.
«No. Il Tagliabue?»
«Propi lu»
Il Bruno emerse in quel momento dal retrobottega, oltremodo infastidito del pettegolezzo delle due.
«Spèta spèta che l’erba la cress» fece, ironico alludendo al di loro pissi pissi e passando davanti alle due donne sbigottite emise un rombo di tuono dalle chiappe.
«Dio, che malduca» gemette la Smantegazzi. LA menegoni non sapeva se ridere o essere afflitta per la sfortuna della sodale, così, incerta, non trovò di meglio che filarsela borbottando un «es vedem» e ripromettendosi di andare a spifferare la scena alla sora Mena che vedeva la Smantegazzi come il fumo negli occhi e andava da anni dicendo a proposito di tutta quella famiglia – riferendosi in particolare al marito, Bruno Smantegazzi – «Quand la mèrda la munta a scragn o la spüssa o la fà dann».
V
Il cavalier Tagliabue rigirava nervoso e inviperito per lo studiolo con lo stuolo degli impiegati comunali afflitti e paurosi tutti schierati, ripiene le mani di carte e scartafacci. In particolare egli ce l’aveva con l’archivista che – spedito a cercare le pratiche Molnaghi – era tornato con cinque faldoni di cartaccia ora sparsa per tutta la stanza, mentr’egli affannato andava cercando un qualche appiglio, un cavillo, un lemma attraverso il quale bloccare i lavori.
«L’autorità. È l’autorità che qui viene messa in gioco. E poi con quel negher al cantiere… basta lo dobbiano propi truvà quel lemma…» borbottava.
L’unico a parer tranquillo era il messo comunale che era seduto sulla poltrona di ricevimento del sindaco e pareva divertirsi assai al vedere i colleghi sudati alle prese con i furori del di loro superiore.
«E voi smettete di dare in quell’aria strafottente e fate sparire quel sorrisaccio dall’espressione vostra» lo apostrofò il Tagliabue che pareva avergli letto nella mente.
Il messo si accosciò vieppiù meglio sulla poltrona assumendo una posa rilassata, lo guardò stolido e gli disse, piano, con un certo tono misterioso: «Sindaco, se la legge non vi accompagna potete sempre fare che sia la legge del paese a fare il suo effetto».
«Non capisco, che cosa volete dire? Siate chiaro» brontolò il sindaco, ignorante di ciò che quelle parole sottintendevano.
Il messo fece un cenno verso gli impiegati che lo guardavano senza aver compreso e il sindaco urlò loro: «Fuori. Fuori tutti. Ho da concentrarmi per capire quel che s’ha da fare»
L’archivista, sorpreso, smise di frugare tra gli atti, con aria interrogativa.
«Fòra di ciàp , ho detto!» strillò l’Egidio e l’impiegato, scosso dalle urla corse a rifugiarsi fuor dall’ufficio sbattendo la porta.
«Incapaci. Sono circondato da incapaci» fece il Tagliabue asciugandosi la fronte con un fazzolettino di seta e accomodandosi sul suo trono davanti alla famosa scrivania. Poi rivolgendosi al messo disse. «Avanti che cosa intendevate con ciò ch’avete detto dianzi?»
Quegli sorrise poi disse maliziosamente: «Ché dove non può arrivar la legge, può arrivare la volontà popolare»
Il sindaco subito parve non comprendere, dipoi sorrise, maligno: «Ho capito. E che cosa consigliate?»
«Un’assemblea popolare. Per discutere del gran pericolo dei lavori alla cascina Molnaghi. È giunta voce…» e qui s’accostò al testone del sindaco dopo averlo raggiunto vicino alla scrivania «che il Rustici voglia far un albergo d’accolta di stranieri. Basta guardare a chi s’è rivolto per fare i lavori….»
Il Tagliabue batté un gran pugno sul tavolo: «Ostia, è vero. Frigerio non andrà mai in mano a quei negher. Dobbiamo fare un’assemblea popolare» e l’idea si impadronì talmente della sua fervida fantasia votata al potere e all’altisonanza sociale che divenne improvvisamente vera e parto della SUA mente, così come il pericolo d’invasione fu da lui immediatamente guatato e sentito come una realissima e potentissima minaccia.
VI
Il Cavalier Tagliabue si sfregò lemani. Sbirciando dall’usciolo del suo ufficio che dava sulla Sala Consiliare, luogo in cui era stata convocata l’Assemblea di tutta la Cittadinanza per discutere dei gravi fatti occorrenti la cascina Molnaghi, egli vide che la stanza era gremitissima come non mai.
Era stato necessario dare, come dire, una spintarella alla faccenda per sollecitare la pressione popolare. Per questo il messo era stato sguinzagliato per il paese a diffondere in via del tutto riservata, veh, che non esca di qui, che lo scellerato acquirente della suddetta cascina, nonché turbatore della legge per non aver richiesto il permesso dei lavori di rifacimento, avesse la folle intenzione di costruire un rifugio di négher, ma di quelli peggiori, gli irregolari, che arrivavano dai barconi, non si sapeva chi fossero e venivano a ladroneggiare sul sacro suolo italiano. In più (e questa era stata l’idea dell’Egidio in aggiunta a quella del messo comunale) era certo che questi sarebbero stati semplicemente l’avanguardia, la quinta colonna dei terribili mau mau che in nome del Profeta “vengono a fregarci tutto: quando saranno di più di noi si piglieranno ogni cosa e a noi ci lasceranno dai vetri”.
Se c’è qualcosa che colpisce giù duro, nel profondo, una società civile, è la paura di perdere il privilegio, lo spettro della subalternità, il timore di una qualche sudditanza.
Le reazioni erano infuriate: “Meldetti négher!” dicevano tutti quelli a cui veniva propinata questa balla d’odio preconfetta “Qui bisogna fare qualcosa”. È a quel punto che il messo lanciava, quasi con noncuranza, l’idea della partecipazione all’Assemblea, come unico modo per “assicurare il futuro dei nostri figli e dei figli dei nostri figli contro questa spazzatura che ci invade per fare i loro porci comodi”.
“Ci vengo, sta pur tranquillo che ci vengo” masticava furibondo il pollo e il Messo si allontanava ridacchiando.
“Avete fatto un bel lavoro” disse l’Egidio apprestandosi ad entrare in sala e pregustando la sua veemente oratoria che avrebbe spinto la popolazione a mettere lei a posto le cose, diamine, senza tutele gabole e le controgabole degli avvocatoni che son sempre pronti a difendere i delinquenti contro gli onesti cittadini che si fanno gli affari loro.
Quando entrò tutti fecero un applauso. Egli modestamente li invitò a essere tranquilli e a discutere la cosa con civiltà e serenità d’animo.
“Serenità d’animo un corno!” disse un grosso nerboruto con un barbone tanto, che abitualmente scorrazzava nei boschi a tagliare alberi per poi venderne la legna, tutta trasportata a mano e scaricata direttamente nella cantina del cliente: “Sissignore: arrivano i negher e noi dovremmo stare tranquilli?” disse, suscitando un mormorio di assenso presso la quasi totalità del pubblico.
“Qua bisogna fare qualcosa” disse una donna “Altrimenti tra qualche mese chi di noi potrà uscire senza il timore di essere molestata o peggio ancora stuprata in qualche cantuccio del paese?”
Il Tagliabue si beava a questa isteria montante: tutto ciò gli rendeva molto facile il gioco.
“Concittadini, vi prego” diss’egli giocando a fare il moderato “Non perdiamo la testa. Noi non possiamo sapere che cosa abbia in testa il Rustici con l’acquisto della cascina Molnaghi, perché non ci ha presentato nessun progetto”
“Come sarebbe a dire?” sbottò un contadinone grasso quanto un tacchino ripieno “Io per fare un pollaio devo fare tre quintali di carta e chel barlafus lì non ha neanche presentato un progetto? Ma che storia è questa?”
“L’è che ha trovato una gabola per la ristrutturazione di cascine e… insomma può fare i lavori prima di presentare il progetto.”
“L’é tutto sbagliato” commentò ad alta voce la Smantegazzi che era ghiottamente accorsa all’Assemblea per vedere se si poteva saper qualcosa del Rustici o di quel negher del cantiere…
L’assemblea cominciò a rumoreggiare: “Non è giusto” diceva, perché a lui sì e a noi no? E poi perché a chel lì che vuol fare il rifugio dei negher non gli fanno niente e a noi invece ci massacrano tutte le volte che tocchiamo un mattone?”
La cosa stava prendendo una brutta piega, ma il Tagliabue da fine politico aveva previsto un intervento che avrebbe deviato le cose nel senso che voleva lui.
Alzò le mani per chiedere silenzio poi disse: “Se devo essere sincero, io contro i negher non ci ho nulla se lavorano, a parte il fatto che sono un po’ sporchi e che c’hanno delle malattie, veh, che noi qui noln ci immaginiamo neanche. Ma a parte questo, c’è anche dei negher che lavorano eh?”
A questo punto qualcuno dell’assemblea comninciò a gridare: “Nonli vogliamo qui. Vadano a infettare la gente da ‘unaltra parte”.
Il Tagliabue finse sorpresa: “Ma qui noi non dobbiamo discutere dei negher. Qui dobbiamo capire la faccenda dei lavori, vedere che cosa si può fare.
“In galera, in galera” urlò uno.
“Senza processo non si può fare niente” disse il sindaco fingendo di preoccuparsi che la situazione gli stesse sfuggendo di mano.
“Voi non potete far niente, ma noi…” disse torvo un lavorante della cascina Milella.
“Sì, si… noi possiamo. Siamo la volontà popolare. Gliela facciamo vedere noi a quel Rustici”
“No, fermatevi” implorò teatralmente il tagliabue, mentre dentro di sé era soddisfattissimo: ormai gli animi s’erano infiammati e, quasi impazziti, i frigeriesi perdevano sempre di più il senso delle cose, com’è d’uopo quando le folle decidono la giustizia, fin quando qualcuno disse: “Andiamo noi dal Rustici e bruciamogli que’ suoi ponteggi fuorilegge, poi vediamo se riesce ancora a terminare i lavori per i negher” e iniziarono, rumoreggiando e urlando a sciamare dalla sala comunale, dove il sindaco saltava di qua e di là facendo qualche tentativo – molto blando – per fermarli.
Quando tutti furono usciti, ordinò di spegnere telecamere e registrazione. Indi si diresse nel suo ufficio e si posò sul poltronone: “Allora come sono stato?” chiese gongolando al Messo comunale.
“Magnifico” disse freddo l’ufficiale.
“E abbiamo registrato tutto così, caso mai capitasse qualcosa, che si sappia bene che non sono stato io ad accendere il cerino…” e si rilasciò completamente giungendo a riempire con il voluminoso addome lo spazio della scrivania ad esso riservato.
VII
Quando giunse davanti alla cascina Molnaghi, la civile e civica folla frigeriese, aveva già in mano fiaccole ardenti, spranghe di ferro e quanto bastava, nell’immaginario collettivo, per dare una lezione a quei baluba portatori dio negher.
Si misero a urlare: “Ru-sti-ci ven fòra”
E poi “Anche ti, negher di merda, ven fòra che altrimenti ti arrostiamo la cotenna”
Ma dall’interno del vasto fabbricato non si udiva nulla.
A un certo punto corse la voce che l’architetto e i suoi operai fossero fuggiti quando avevano sentito la folla che marciava alla loro volta.
“Ciaparatt” si cominciò a udire “Ciùciamanuber” “Fescia” “Panada”
E poi qualcuno ebbe la malaugurata idea di tirare un sasso alla volta dei ponteggi e ben presto una sassaiola fitta fitta iniziò a spaccare vetri e tutto quel che si poteva spaccare della cascina. Un gruppetto forzò il cancelletto che chiudeva l’ingresso nei vasti cortili. Un piccolo flusso di esagitati entrò dentro a continuare l’opera demolitrice che s’era intrapresa dall’esterno. Dipoi, un bagliore rossastro cominciò a montare.
“Il fuoco, il fuoco” disse qualcuno ridendo.
“Hanno dato fuoco alla cascina” ribatté qualcun altro con soddisfazione.
“Hanno fatto bene”
“Evviva”.
Improvvisamente non si sa bene come, un refolo di vento cominciò a levarsi dalla pianura.
Quelli meno bolliti dall’esaltazione popolare borbottarono: “Si mette male se si leva il vento”
Una colonna di fuoco sfondò il tetto del tinaggio, dove evidentemente era custodito materiale infiammabile e si levò altà con una miriade di scintille.
Molto alta.
Troppo alta.
“Qualcun el ciama i cuu d’Or” disse un vecchietto ”Qui va a fuoco tutto il paese”
“Ma va” dicevano meno sicuri i più scaldati.
Il fuoco si propagò con una velocità inaudita attraverso i tetti a tutti i fabbricati della cascina che comincarono ad ardere in un falò che non si era mai visto.
Quelli che possedevano le case vicine alla cascina cominciarono a non ridere più.
“I pompieri. I pompieri bisogna chiamare” inizarono a dire.
Qualcuno corse a casa e provò a telefonare ai pompieri, ma i cittadini di Frigerio avevano dimenticato che la cascina ospitava anche la centralina telefonica, essendo in mezzo al paese in una posizione assai favorevole allo smistamento delle linee.
E quindi il telefono era muto.
“Un cellulare, un cellulare” cominciò a strillare qualcuno. Ne emersero una ventina, ma nessuno prendeva una cippa perché sui tetti della cascina era sistemata la cellula che permetteva il collegamento dei telefonini alla centrale.
E così i pompieri furono avvisati quando ormai il fuoco, alimentato da quel ventaccio improvviso aveva addentato e quasi estinta una buona metà degli edifici del paese.
Saltò poi fuori per la cronaca che il Rustici non aveva nessuna intenzione di fabbricare un punto di accoglienza per i rifugiati politici, bensì voleva fare un Resorto che avrebbe dato lavoro ad almeno venti giovani del paese.
Anche se non fu mai ufficialmente incriminato – per via delle registrazioni che aveva fatto e aveva custodito gelosamente – Egidio Tagliabue non fu mai più rieletto e il suo nome venne dimenticato e cancellato dalla lista dei Sindaci emeriti del benemerito paese di Frigerio.