Quando compare Olimpio raggiunse la veneranda età di novantasette anni si guardò una mattina allo specchio e vedendo il proprio sembiante rugoso e cartapecorito prese una decisione.
Mandò a chiamare per il nipote Pasquale Cammareri detto Fanello – un ragazzaccio grosso e tonto – il becchino del paese, Mastro Mizzirò e quand’egli fu giunto nei suoi appartamenti gli disse: «Ohé, compare, voglio concordare con vossia il mio funerale».
Questi lo guardò stranito, fece una o due boccacce, ché aveva egli ereditato dal padre un tic nervoso che s’era ingrandito negli anni, consistente appunto nel pronunciare involontariamente le labbra e nel ritrarle subito dopo verso l’orecchio sinistro, la qual cosa faceva una certa impressione nel guardante, soprattutto se collegata al suo non comune mestiere, e poi rispose: «E perché di grazia, compare Olimpio? Voi mi parete più sano d’un grillo e non c’è nel paese uno meglio di voi quanto a salute. Orbene la gente comune abborre l’idea del funerale prima che sia l’ora, anzi ha a odio anche solo sentirne parlare e voi volete già predisporre la pompa funebre avanti che l’onorata signora sia venuta a bussare al vostro uscio? Mi pare una decisione improvvida, pur se conveniente a me e alla mia pregiata ditta»
Compare Olimpio storse il naso, afferrò il bastone con più forza e rispose. «L’è appunto per questo che voglio apprestarmi all’opera. Che non lo faccia nessuno non è un buon motivo per non pensarvi, anche perché, data la mia età, mi pare che il gravame s’appressi, ancorché lo voglia spostare il più possibile in là» e gli sventolò sul viso, a dipresso di quel nasaccio, un paio di corna con le mani ossute e grinzose.
«Ancora un’obiezione, compare, e poi mi tacerò. Avete pensato che se io vi preparo una bella e comoda cassa, poi ve la dovrete tenere in casa? Non vi annoia l’idea di vedervela lì tutti i giorni della vita che vi rimane?»
Compare Olimpio emise una risatina stridula e con fare teatrale usò la mano buona, quella libera dalla canna da passeggio per indicare la sala decorata con innumerevoli porte nella quale aveva ricevuto il funereo incaricato: «Ognuna di queste porte, amico mio, dà in una stanza ormai vuota nella quale né io né la mia servitù entriamo da tempo. Basterà sistemare tutto il corredo là dentro, ben impacchettato perché non s’impolveri e sarà lì già pronto all’uopo quando ve ne sarà la bisogna, senza più scomodare alcuno» e poi emettendo un risolino mefitico: «Magari per allora voi, Mastro Mizzirò non ci sarete più. E come faccio io a fidarmi d’altri che d’un amico che conosco sin dalla mia infanzia»
Fu la volta di Mastro Mizzirò a fare il corno scaramantico con le sue dita bianche color cadavere e a stiracchiare un sorriso. «Non sia mai detto, compare. Orbene se avete presa la decisione mi appresterò a confezionarvi un apparato funebre di tutto rispetto e dignità, ché immagino non vi accontentiate d’un funerale comune di quarta serie, ma desideriate invece una pompa di seconda o di prima categoria»
«Al tempo. Quanto avrei a investirci in tale guisa?» chiese compare Olimpio.
Quegli alzò gli occhi per pensare, prese un angolino di carta sudicia da una tasca e cominciò a incolonnare cifre. Compare Olimpio seguiva quel contare e mormorare con una certa ambascia perché se egli non potevasi annoverare tra i poveri – era arrivato a tale stato in grazia di una certa attenzione nell’amministrare il denaro che poteva anche chiamarsi taccagneria – non poteva tuttavia neanche dirsi del tutto ricco.
Quando Mizzirò riemerse dai suoi conti e gli porse il biglietto, Olimpio guardò la cifra, allargò a dismisura gli occhi cisposi, infossati nelle orbite, fece saltare la berretta da camera sul cranio pelato e un lieve color carne gli imporporò il viso: «Duemila fiorini? Signornò. Non li spenderò mai. Sono esageratamente troppi»
Mizzirò emise un sospiro e poi fattosi coraggio chiese. «E quanto di grazia pensavate di spendere?»
L’altro rifletté e poi gracchiò: «Non più di duecento fiorini»
Mizzirò si mise a ridere sgangheratamente: «Con duecento fiorini» sillabò dopo essersi ripreso «non avrete neanche il coperchio di una cassa, la più economica che v’è»
«La vedremo» disse Olimpio e congedò di malagrazia il proprietario della premiata ditta Pompe Funebri Mizzirò & soci, che soci non ne aveva, ma gli pareva così bello metterlo nella sua insegna.
Olimpio, quando costui se n’andò via, si scoprì irritato a pensare a tutta quella montagna di denaro spesa inutilmente per un funerale e scoprì di sdegnarsi vieppiù.
Rimuginò il dialogo per tutto il pomeriggio e la mattina seguente. Quando poi fu di nuovo sera trattò di malagrazia Comare Santilla che lo assisteva per la modica spesa di venti centesimi al giorno e congedò con rudezza il nipote Pasquale, che era ritornato in vista di scroccare qualcosa per la commissione del giorno precedente, senza elargirgli alcunché.
«Maledetto taccagno» mormorò quegli andandosene «spero che andiate assai presto sotterra» e si ricevette una scarpa in testa da Olimpio che gli strillò: «T’ho sentito sai? Non comparirmi più innanzi, sciagurato, maleducato arnesaccio che sei»
Mentre il mattino dopo, imbronciato, faceva la sua sobria colazione, una fetta di pan di zenzero imbevuta in latte molto annacquato, maturò una decisione.
«Costa così tanto morire? Ebbene io sciopererò. Sciopererò dal morire. Me ne asterrò fin quando non si raggiungerà un compromesso. Non è giusto che mastro Mizzirò debba arricchirsi alle spalle dei poveracci che come me debbono controvoglia, per giunta, andare incontro alla famelica divoratrice» e, già più soddisfatto della decisione presa, si apprestò a fare la sua solita passeggiata lungo la via del paese.
Quando scese, si avviò come tutte le mattine verso l’osteria del Moro dove trovava un paio di vecchi scrostati come lui che si sedevano al tavolino e lo occupavano per l’intera mattinata consumando un bicchiere d’acqua o, rare volte, in occasioni di festa, un caffè che veniva diluito a lungo per farlo durare di più.
Quando ritornò alla sua magione, compare Olimpio era addirittura allegro. Avea parlato di questa sua decisione ai due sodali più intimi, un certo Gaetano e un altro Carmelo che avea trovati nella locanda. Dopo avergli illustrato il progetto, costoro aveano fatto un gran balzo sulla sedia, s’erano fatti quattro risatine e uno di loro osservò: «Anch’io avevo pensato al mio funerale. Se però tu l’hai fatto, potrei anch’io scioperare»
«E io pure» ribatté l’altro.
Nacque così il progetto di diffondere l’idea e di beffare in modo supremo Mastro Mizzirò e la sua degna comare, la signora Morte, con lo sbandierargli davanti alla faccia questa faccenda dello sciopero e dell’astensione volontaria.
«È un’idea meravigliosa» sospirò l’oste che stava a sentire i vaniloqui di quegli svaniti «se solo si potesse»
«E perché non si può? Chi lo ordina?» chiese Olimpio.
L’oste fu preso in contropiede. A ben pensarci in effetti nessuno aveva mai ordinato che si dovesse morire per forza. Era considerata una legge naturale ma mai nessuno aveva visto un bando firmato e controfirmato che lo comandasse veramente. Costui aprì la bocca per rispondergli ma non gli uscì alcun suono dalla bocca.
Olimpio si aggrappò al bastone e ridacchiò: «E noi faremo sciopero»
«E lo diremo a tutti» aggiunse compare Gaetano.
«E tutti qui faremo sciopero, finché Mizzirò si deciderà a collaborare riducendo le sue assurde pretese»
L’oste scosse la testa e sorrise: «Bastasse una decisione così» pensò tra sé e sé e si affrettò a ritornare al suo lavoro di pulitura di piatti e di bicchieri
In breve tempo la voce si sparse e le adesioni si ebbero, all’inizio contate come le gocce di una pioggia estiva, per divenire ben presto un acquazzone che raggiunse la pressoché unanimità dei vecchi del paese.
Solo uno scosse il capo e si impuntò: «Mi sembra una cosa del tutto pazza e vana» e, rivolgendosi a Olimpio che era venuto alla sua abitazione a perorare la causa: «Io non ci sto» disse duro e ostinato.
Crepò quel pomeriggio per un coccolone apoplettico e tutti lo compiansero più per la sua ostinazione che per la pietà dovutagli. Fu l’ultimo a morire perché dal giorno esatto in cui Olimpio aveva posto in circolazione la sua proposta, nessuno defunse più in quel paese. Gli annali lo registrano e lo testimoniano: v’è una lunga serie di pagine bianche sul registro degli atti di morti che era organizzato mese per mese. Più nessun morto, nessun atto di defunzione, nessun funerale.
Mastro Mizzirò cominciò a preoccuparsene dopo la quarta settimana ch’egli se ne stava inoperoso nella sua botteguccia.
S’era preso un impegno con il colonnello Virzì a proposito di una certa somma di denaro di cui aveva avuto bisogno per acquistare un poderetto vicino alla sua casa e adesso stava giungendo il termine di restituzione di una rata ma egli si trovava sprovveduto, dal momento che erano ben quattro settimane che più nessun funerale s’era celebrato in paese.
«Quale strana evenienza» diceva tra sé e sé mentre passeggiava nervoso nell’andito della sua ditta, quello in cui teneva i modelli delle bare che mostrava ai parenti del caro estinto per la cernita «Non è mai capitato che si passassero quattro settimane senza neanche un morticino da seppellire.» poi servendosi d’un cordiale, incolpò di questa stranezza i cambiamenti climatici e la medicina che faceva passi da gigante e si risolse a fare una passeggiata fino al poderetto per consolarsi e per allontanare la paura spettrale dell’indigenza che gli era apparsa lì, quel pomeriggio con la constatazione dell’ozio della sua bruna collaboratrice, la morte, che pareva essersi divagata dal paese o impossibilitata a svolgere ivi la sua purificatrice funzione.
Il colonnello Virzì parea aspettarlo facendo capolino dal cancelletto del suo cascinale. Sorrideva, il maledetto usuraio, e dalla sua bocca, contornata da un paio di sardonici baffetti a punta, fuoriuscì una risatina repressa che testimoniava il grado di coinvolgimento emotivo che lo assaliva in quel mentre, al vedere appunto il vicino e debitore affranto e ancor più pallido del dovuto.
«Eheh, mi hanno detto egregio Mizzirò che i vostri affari languono…»
«Vi hanno riferito bene, eccellenza, ché per uno strano e fortuito caso la morte sembra scioperare in queste circostanze…» attaccò Mizzirò con tono da geremiade, nell’atto di voler strappare un poco di comprensione a colui che tiranneggiava la sua borsa.
Quesgli si accostò con fare circospetto, voltò di qua e di là il capo come un cospiratore e poi gli disse: «A me hanno detto invece che non la morte vuole scioperare, bensì i morituri, arringati da compare Olimpio. Pare che non abbia gradito il prezzo della pompa funebre che voi gli avete proposto… ».
Mastro Mizzirò arrossì violentemente: dunque era questo il perfido disegno che lo teneva in scacco? Che teneva in scacco addirittura la morte stessa?
«Ah, canaglia» esclamò tra i denti, provocando la stridula risatina del colonnello, il quale non appena si riebbe con fare mellifluo si accostò nuovamente al suo debitore sibilando: «Quanto a voi vi ricordo che avete da saldare la rata dovutami.»
«Abbiate cuore» piagnucolò il Mizzirò, sapete bene che ci si trova in condizione di ristrettezza per quel disegno scellerato perpetrato a mio danno da quegli stolidi vecchi… non appena questa storia cesserà onorerò quanto è d’obbligo, come ho sempre fatto…»
«La morte non attende. La rata Mastro Mizzirò, la rata…» disse il Virzì con uno strano accento mentre si ritirava nel suo podere e lo guardava con intenzione.
Mizzirò si sentì gelare il filo della schiena e decise di opporre tutto il suo peso per porre termine alla questione. Camminando come una furia si precipitò alla magione del rugoso Olimpio e prese a battere come un forsennato al suo uscio.
Assai tempo successivo la porta si spalancò rivelando la berretta lisa del vecchio: «Che volete, mastro Mizzirò? Stavo riposando»
Egli fece cenno d’entrare ma venne bloccato dal bastone messo di traverso
«Non mi fate entrare, compare?» chiese.
«Alla larga le sanguisughe dalle mie stanze» soffiò.
«Proprio per questo son venuto qui. Mi fate dunque passare?»
Olimpio rifletté qualche secondo, l’età gli avea rallentato le movenze e squinternato alquanto i processi di pensiero finché si decise e rimosse l’ostacolo dallo stipite.
I due uomini si introdussero nuovamente nella sala ove s’era svolto il precedente colloquio.
Mizzirò, affranto, si lasciò cadere su una delle sedie.
Olimpio attese.
«Son venuto a proporvi un patto» disse alfine.
«E io son qui ad ascoltarvi»
«Recedete dal vostro sciocco proposito e io vi concederò un notevole sconto per la vostra pompa funebre.»
Olimpio emise una risata stridula, strabuzzò gli occhi e replicò: «Se volete ch’io receda e faccia recedere anche coloro che si oppongono alla sorte dettata dalla vostra inquietevole… amica, dovete concedermi cerimonia di prima classe e gratis»
Mizzirò impallidì e fu lì lì per dare di voce su quella assurda richiesta ma si trattenne perché gli passò in capo la visione di sé, lacero e ramingo, errante pel cimitero a stringere, lacrimando, lapidi vuote, senza nomi e date di morte. La smorfia che lo coglieva quand’era particolarmente inquietato brillò per due o tre volte stravolgendogli il volto e poi sussurrò rassegnato: «E sia! Ma voi toglierete il veto a morire oggi stesso. Spero che ella – e si riferiva alla morte – voglia appagarsi anche di ciò che le è stato negato per tutte le settimane orsono che son trascorse» disse Mizzirò alzandosi, e poi voltandosi vivamente verso Olimpio, con una smorfia di minaccia esclamò: «E spero ardentemente, mio caro, che voi siate uno dei primi»
Olimpio borbottò qualcosa accennando alla scaramanzia di rito in forma di indice e mignolo vivamente sbandierati all’aria e lo cacciò di casa in malo modo dicendogli, prima di sbattergli l’uscio sul muso: «Mi aspetto di veder arrivare domani ciò che mi spetta».
Mizzirò, sollevato, si recò alla premiata ditta di Pompe Funebri Mizzirò & soci e dispose l’invio di una bara di prima classe all’indirizzo di compare Olimpio e poi si mise in attesa.
Ma né il giorno dopo, né in quello successivo e neppure in quello successivo ancora si ebbe un benché minimo mutamento dello stallo nel quale la defunzione parea trovarsi.
Il quarto giorno, furente, si levò dal lettuccio nel quale si era coricato vestito e si diresse come un invasato verso la casa di compare Olimpio con una rivoltella in mano.
«Egli non ha mantenuto la parola» rimuginava come un folle mentre si avvicinava alla sua meta «e mi deve la sua vita. Gliela prenderò, non ostante la pigrizia della infame traditrice»
Si mise a battere e battere all’uscio strillando: «Ehi, di casa!»
Colla solita lentezza l’usciolo si aprì e quando compare Olimpio con la gravezza dei piccoli movimenti che gli erano d’uso si affacciò, egli scaricò l’arma verso quel corpo emaciato con una risolutezza quale mai aveva avuto in vita sua.
Dopo che si ebbe diradato il fumo degli spari, egli vide con somma meraviglia Olimpio fermo, al suo posto, sulla soglia, guardarlo con accenno di disprezzo.
«Forse non v’è giunta l’ultima notizia, mastro Mizzirò…» disse non senza una punta di sdegnoso contegno il vecchio mentre Mizzirò avea spalancato la bocca trasecolo e avea lasciato cadere a terra l’arma ancora calda.
«E sarebbe?» balbettò quegli, non senza aver avuto il volto devastato da una serie di fibrillazioni incontrollate che gli deformavano la bocca e la guancia.
Mentre i due si fissavano, una piccola folla, attirata dagli spari si radunò lì intorno. Olimpio, lieto per quel piccolo palcoscenico che gli si presentava improvviso, escì, sbottonò la camicia e denudando il petto avvizzito in cui si vedevano chiaramente i fori dei proiettili, ma da cui non usciva la benché minima goccia di sangue, disse ad alta voce: «La vostra avidità vi ha rovinato, Mastro Mizzirò. Non l’avete capito? La morte, stancata da tutte queste meschine baruffe, ha deciso a sua volta di scioperare. Non ci vuole più caro mio, e così dovrete rassegnarvi all’indigenza».
Quando l’uscio batté in volto a Mizzirò, questi si accasciò a terra con le mani tra il capo e si mise a singhiozzare come un fanciullo, proprio lì sulla pubblica via, senza più alcun contegno né speranza.