IV racconto dei tarocchi
Sonnolenza. Oltre al male che doveva subire con il quale era ormai compagno, non un grande dolore, un certo fastidio piuttosto, che si concentrava verso la parte interna del pube e poi vagava un po’ per tutto il ventre, come un temporale che percorresse la gran caverna e si scaricasse or qui or là in forma di grandi losne o troni che ruttavano gonfiore e si sfogavano per il loro natural canale provocando imbarazzo e sconcerto nel civil mondo, si sentiva in fondamento depresso e addormiente. Inutilmente si proponeva e riproponeva l’ormai stantio ragionamento che il male non guarda in faccia nessuno “Eppure porca troia, proprio me doveva prendere, ‘sto bastardo?” ogni tanto spuntava tra i pensieri come un folletto dispettoso e amava celarsi e rispuntare, a immagine dell’algore di tra i suoi pensieri per irsene via veloce e lasciarlo nello sconforto più nero a ipotizzare chissà quali morti orrende e piene di sofferenza.
La morte. Era questa la sua seconda compagna insieme al dolore. La grande pacificatrice e anco la grande distributrice, universa alla gente per la quale tutti i pennacchi, le chicchere e l’altre variegate balle di cui si circondava erano men che cenere.
Per questo era venuto lì, dopo aver sentito dal cavalier Sonnenghi celebrare le lodi di tale personaggio. Proprio lì in quella caleidoscopica sala ove gente rutigna e inanellata su se stessa piagava e smaniava per un turno, un’audizione, anche piccola.
Lui però non s’era fatto trarre in inganno. E dato che disamava piatire alcunché, stante il fatto che nella vita propria Mai e dico MAI aveva chiesto qualcosa né s’era bardato della parte del bisognante, quanto invece sempre del datore, essendo la di lui ricchezza assai considerevole, s’era premurato di sfondare la tasca di quel coglione di segretario con una busta quale quello non aveva visto l’eguale in tutta la sua minuscola carriera.
Difatti il giorno dopo aver fatto recapitare busta e richiesta aveva ricevuto una telefonata. Era il segretario che l’avvisava che il Lamberti l’avrebbe ricevuto l’indomani pomeriggio tardo, anzi che venisse pure verso sera ché era facile che la coda non si fosse del tutto esaurita nemanco essendo prossimi all’orario di chiusura. Anzi, aveva provveduto a comunicargli assai gentile il funzionario, il Maestro Lamberti ben oltre l’orario avvertito sulla targa riceveva e continuava a svolgere la sua missione d’impositore di mano e di dispensatore di guarigioni miracolose.
Era stato proprio l’aggettivo miracolose ad attirare l’attenzione. Ben cosa strana: in lui così ligio alla scienza e al raziocinio quella parola aveva sortito uno strano effetto. Paventando il Lamberti essere un imbroglione, il solito imbroglione, aveva ritenuto il caso di sincerarsene con le proprie parti uditive e visive per sbugiardarlo nel caso che lo fosse proprio stato o per trarne beneficio nella quasi impossibile evenienza che questi fosse stato davvero divinato dal prodigio dell’arte della guarigione.
Ed eccolo lì, ormai da quasi mezz’ora ad attendere in quell’angusta camera d’attesa ove l’impietosa manifestazione dell’umanità sofferente dava miglior prova di sé.
In realtà egli cominciava ad essere nervoso. Un po’ perché non era abituato ad aspettare siffatto tempo – lui soleva far aspettare intervalli anco maggiori e ora per la prima volta ne intuiva il dispetto, e questa nascente sensazione acuiva in lui la soddisfazione d’averla egli stesso inflitta ai suoi nemici – un po’ perché non erano quelli i patti concordati nella previa comunicazione ch’egli aveva avuto con il deferente segretario. Per codesto motivo scoccò a questi uno sguardo furioso indicando brevemente l’orologio da polso e quegli – il segretario – allargò le mani con un mesto sorriso d’impotenza.
Ecco finalmente schiudersi la porta dello studio di ricevimento.
Quasi di scatto egli si alzò e si introdusse nello studio del Lamberti non dopo aver incontrato lo sguardo condiscendente del segretario che con un cenno del capo avevagli confermato la giustezza del turno.
Entrò dunque e si chiuse la porta alle spalle.
Lo studiolo era assai poveramente arredato.
V’era uno scrittoio di poco conto ingombro di fogli, una sediola su cui era seduto il maestro, un lettuccio d’ambulatorio, un minuscolo armadietto in stile poverissimo e un enorme crocifisso ligneo di dubbio gusto e di assai scarso valore appeso alla parete.
Sulla seggiola un uomo anziano, trascurato di barba e di capelli, con due occhiaie cispose e nere attorno agli occhi e la bocca piena di denti gialli.
Tano de Matteis fece un minuscolo, impacciato mezzo inchino e si apprestò a declinare l’elenco delle sue sofferenze quando il Lamberti gli fece cenno di tacere.
«Preferisco verificare di persona i vostri mali e declinarli io stesso con un solo tocco di mano» disse con una voce tremulante, assai instabile. Si alzò dallo scrittoio e si avvicinò a passi barcollanti posati da due gambe ossute verso il lettuccio dove aveva fatto cenno di accomodarsi al nuovo cliente.
Tano si sedette ma il Lamberti lo guardò storto: «E che fate? Non vi spogliate? Come fo a sentire il fluido del vostro male se frapponete una stoffa tra voi e i miei organi sensitivi?»
Tano lo guardò seccato: non immaginava di certo di doversi levare le vesti e brontolò qualcosa, dipoi prese a spogliarsi con sistema fin quando non rimase con un paio di braghette bianche che gli penzolavano da tutte le parti e i cui tagli mostravano assai più di ciò ch’è lecito mostrare.
«Distendetevi» disse costui.
Tano si distese non senza una certa apprensione d’esser toccato da mani che dovevano aver toccato chissà quali corpi e quali piaghe.
Questo pensiero non lo confortò proprio per nulla ed egli si tirò talmente che il ventre emise un enorme rutto involontario che proruppe per la stanza come un boato.
Il Lamberti si avvicinò alla gran massa del Tano e inziò a palpare e affondare tra la grascia le sue dita mingherle e uncinate d’unghie non livellate.
«Ahia» strillò d’un tratto il Tano per un affondo particolarmente profondo ch’egli fece. L’altro sorrise cattivo: «Lo sapete come mi chiamano?» gli chiese.
«Non saprei» rispose il Tano mentre quegli riprendeva la sua esplorazione.
«L’imperatore dei dolori» disse ridacchiando. Armeggiò ancora un poco sul ventre poi passò la mano a distanza su tutta la superficie occupata dal corpaccio come per avvertire qualcosa. Mentre eseguiva quest’operazione avea chiuso gli occhi, smorfieggiando ogni volta che gli era parso d’aver sentito qualcosa d’anomalo o di particolar rilevanza.
Dipoi s’acquetò e tornò a sedersi alla seggiola.
Il Tano si alzò dal lettino e andò verso le sue vestimenta quando l’altro lo bloccò: «Fermo, per carità»
Il Tano s’arrestò bruscamente e tornò mite a sedersi sul lettuccio mentre l’altro taceva, come se stesse riflettendo in silenzio.
«Uhmmm, sì» disse d’un tratto.
«Sì che cosa?» chiese Tano un tantino allarmato.
«Il vostro caso richiede qualcosa di potente, non basta una semplice imposizione di mani»
A Tano inziò una tremarella da far scotere come un budino tutta l’enorme mole che lo appesantiva: «Perché tale cura, che cosa avete visto per l’amor di Dio?» chiese tra l’isterico e il terrorizzato.
«Un caso grave assai» mormorò per tutta risposta l’imperatore dei dolori iniziando a frugare in un armadio.
Ne trasse una strana custodia di cuoio che avea una forma particolare, come d’una croce sormontata da un occhiello.
«La vedete?» fec’egli brandendola sopra il suo capo.
«Mi pare una croce» rispuose Tano tremando.
«Ignorante!» strillò il Lamberti «Ess’è il sacro ankh, dissigillo della malattia, chiave vitale che l’antico egizio usava per guarire insanabili malattie con il sacro potere derivato dalla sua forma»
Tano lo guardò dubitoso: «E per che cosa lo usereste – applicato a me – tale aggeggio?» chiese alquanto spaventato.
«In genere non dico mai ciò ch’io sento dalla perspezione della mano che sovrasta il corpo. A me giungono segnali chiari, sissignore, che nessuna diagnosi medica ha mai smentito. Mai!»
«S’ho da essere sincero, a me dispiace affatto ch’io non possa conoscere novella su ciò che voi pensiate ch’io debba avere, dunque vi prego, anche per il denaro che v’ho fornito, d’esser preciso, chiaro, sbrigativo e concreto con me. Che cosa ho?» disse Tano.
L’ uomo parve divertito per la volata del vecchio, borbottò qualcosa come se smaniasse per qualche interno dissidio, poi allargò le palme: «Denaro? Puah! E sia, ma non lamentatevi poi ch’io vi abbia detto ciò che sto per dirvi»
«Fate, pure, non son vile io di sentire con puntualità ciò che mi resta da vivere»
«Avete il ventre corrotto, signore, assai corrotto dall’ingordigia con cui amate il cibo che ingurgitate. Soffrite di mali spasmici all’intestino che viaggiano per tutto il ventre e si acutizzano or qui or là secondo delle condizioni in cui essi possono viaggiare. Massimamente, quando il vostro ventre è gonfio essi manifestano un fastidio che vi fa percepire acuti dolori che in fretta vi assalgono e in fretta spariscono. È o non è così?» chiese in tono ironico.
«Confermo quanto avete detto» disse il Tano, stupendo per la precisione e la concisione con le quali il Lamberti aveva espresso la sua opinione sulla di lui salute.
«E qual è il rimedio?» chiese.
«Aspettate, non è finita. Insieme agli spasmi v’è anche un indolenzimento mentale che partecipando dei collegamenti esistenti tra il capo e il ventre inducono parti intere del vostro cerebello a stimolarsi e trafiggervi con acuti mal di capo»
«Anche questo è vero» disse Tano sempre più stupito per la gran diagnosi.
«E per finire, la di voi brama sarebbe quella d’avere un ventre da diciottenne, liscio e gonfio di muscoletti che l’attuale grascia impediscono di essere visti, senza dire che probabilmente essi non ci sono ormai più per il deplorevole stato in cui avete lasciato cadere il vostro fisico.
«Ohibò, quale impertinenza» borbottò Tano.
L’altro emise un acuto risolino, attese qualche minuto guardandolo con quegli occhi da roditore e poi chiese: «Dunque?»
Tano lo guardò disorientato: «Dunque che cosa?» biascicò.
«Le guariamo queste magagne o le lasciamo?» fece il Lamberti, maligno.
«E perché sarei venuto costì e avrei sganciato tutto il pappardello che è finito nelle vostre tasche? Per sentirmi dire quel che so benissimo d’avere? Eccerto che guariamo» fece seccato il Tano.
«A piacer vostro» fece, sibillino il Lamberti. Poi sospirò scotendo il capo e fece per alzarsi dalla seggiolaccia che occupava.
Tano si insospettì, poi trovando il coraggio proruppe: «Perché siete così dubbioso? Credete forse ch’io non abbia denaro per compensarvi?»
L’uomo diede in una risatina: «Si vede proprio che non sapete niente: io curo aggratis tutti quelli che vengono qui da me» fece.
Tano ci rimase male pensando alla somma che aveva lasciato nelle rapaci mani del segretario.
«Aggratis? Mannaggia. E che potreste esser ricchissimo» si lasciò scappare.
Lamberti lo guardò come non riuscisse a comprendere quel ragionamento: «E che me ne farei di tutta quella ricchezza che voi disegnate per me?»
«Potreste avere uno studio ben più magnifico di questo» insinuò Tano.
Lamberti emise una schietta risata: «Non cambierebbe un ette di quel che vo facendo: anche avessi gli stucchi del Borbone sortirei comunque lo stesso risultato»
Tano fece un gesto infastidito: «E allora esercitateli codesti vostri poteri e guaritemi» lamentò.
«Ne siete certo? Vi avverto che vi sono effetti collaterali nelle mie cure»
Tano lo guardò improvvisamente sospettoso: «Qual genere di effetti?»
Lamberti si alzò dalla sedia e allargò le braccia avvicinandosi: «Effetti di sorpresa, che io non posso prevedere e che in genere seccano alquanto colui che è stato sottoposto alla cura»
«Ma son cose grosse?» s’informò il Tano.
«Minuzie, ma a volte sgradevoli» fece quegli mentre si nettava le mani con un certo olio profumato contenuto in un vasetto sbreccato. Tano lo guardò dubitoso, poi risolse di non ascoltare le ubbìe di quel vecchiaccio e di vedere se fosse riuscito anche solo di poco a ridurre l’effetto di que’ malori che l’assalivano sempre più di frequente.
«Procedete» disse secco, risolvendosi al tempo stesso di tagliare il compenso che aveva deciso di dargli se per caso fosse guarito anche solo di poco almeno da qualcuno de’ suoi mali.
Il vecchio si avvicinò al lettino, poi chiuse gli occhi, divenne pallido e iniziò a sudare mentre le mani gli si muovevano a scatti, tremanti, come s’egli non avesse più la facoltà di controllarle e di dirigerle.
Di fatto esse cominciarono come a cercare qualcosa sul suo corpo con una certa compulsione che appariva dalle smorfiacce ch’il vecchio faceva. Dipoi, fissatesi su un lembo del gran ventre, costui appoggiò le sua ditacce su cinque punti della pelle attraverso i quali Tano principiò a sentire una certo calorino che pian piano s’accrebbe fino a diventare un foco vivo.
«Ahia, mi fate male!» proruppe quegli d’un tratto, ma il vecchio non parve neppure udire la lamentela e un certo vago terrore cominciò a scorrere nella colonna vertebrale del malato quando si accorse che non riusciva a sottrarsi a tutta quella calura e che anzi essa rinfocolavam rendendogli quasi incandescente il fianco.
«Ahia! Ahia! Smettetela!» strillò Tano cercando invano di sottrarsi a quel contatto.
L’espressione quasi beffarda del guaritore ignorò completamente il lamento e, anzi le sue dita iniziarono a emanare vieppiù calore fin quando il Tano urlò con tutte le sue forze.
A quel punto il maladetto vecchiaccio mollò la presa e incredibilmente il Tano sentì svanire il bruciore come per incanto, e si trovò a chiedersi se avesse sognato tutto quel dolore o lo avesse sentito per davvero.
Quando si riebbe, Lamberti gli apparve smunto come al solito e nulla dei sudori, delle smorfie legate al rito apprivano ora sul suo volto, piuttosto una certa stanchezza unita a un’ombra di seccatura per il comportamento davvero irritante ch’egli avea tenuto nei suoi confronti medesimi con tutto quel piagnucolare e strillare.
I due si guardarono a lungo: sofferente Tano, indifferente l’altro, finché quest’ultimo disse: «Abbiamo finito, potete andare»
«Come sarebbe a dire abbiamo finito? E la cura?» esplose Tano, contrariato.
«Quel che si poteva fare è stato fatto» sentenziò il guaritore.
«Ma siete sicuro? Non c’è bisogno di altre sedute… un altro appuntamento?» chiese Tano.
«No» rispose sibillino l’altro.
«E per il pagamento…»
Lamberti lo guardò furioso: «Già vi dissi che ogni mia cura è gratuita. Non maneggio denaro. Davanti a me non voglio sentire neanche la pronuncia del suono della parola denaro» sillabò il Lamberti.
«Se la cura non dovesse sortire effetto…»
«La cura sortirà tutti gli effetti che deve sortire. Dovrete avere un po’ di pazienza. Eravate piuttosto malridotto» sentenziò impaziente il guaritore «E ora, se poteste scusarmi, vi pregherei di uscire ché altri hanno bisogno di me» conchiuse piuttosto rudemente il guaritore.
«Ah, sì certo» borbottò Tano agguantando i vestiti e mettendoseli distrattamente. D’un tratto fu colpito da una sensazione. «Oh, bella. Quando mi chino per mettermi i pantaloni non sento più una fitta al ventre che…»
«Potreste chiudere i vostri lamentarii? E uscite, per grazia di dio, ché ho altra gente che aspetta» rispose rudemente il Lamberti.
Non appena ebbe infilata l’ultima giacchetta, Tano uscì. Guardò con aria di commiserazione tutta la folla penitente che si accalcava nella sala d’attesa e fece per andarsene quando il segretario gli fece cenno di avvicinarsi.
«Com’è andata?» chiese quand’egli fu accosto alla minuscola scrivania.
«Abbastanza bene» fece quegli cauto.
Il segretario lo guardò con un sorriso enigmatico: «Scommetto che v’ha detto tutto il male possibile del denaro e che le sue cure sono aggratis, non è vero?»
Tano lo squadrò diffidente: «È esattamente quel che m’ha detto» confermò.
Il segretario fece un risolino nervoso:«E così ha scaricato di nuovo su di me l’immagine di far la carogna e di chiedervi un modesto obolo d’offerta per la vostra cura…» disse contrito l’omino.
Tano non diede mostra d’aver più d’un sospetto su tale richiesta ma si contenne: si sentiva adesso veramente bene, quale non si era più sentito da anni. Prese una busta e principiò a scaricar dapprima un bigliettone, poi un altro e poi un altro ancora. Guardò la busta mentre gli occhi del segretario si accendevano di brama e la sua lingua passava golosa sulle di lui labbra. E improvvisamente il Tano sentì l’impulso a travasare un quarto bigliettone e ancora un altro nella cartacea custodia, a chiuderla e a consegnarla nelle mani del solerte segretario che la fece sparire in un batter d’occhio e si profuse inchinandosi a rendere mercede alla straordinaria generosità del novello guarito.
Il Tano si allontanò tutto lieto e tronfio. Ma quando fu fuori ebbe una lama di pensiero che andava al malloppo depositato nella busta e si sentì mancare. Ma quanto avea pagato quella cura? L’era essa potente assai perché egli raffiguravasi le giunture come novelle e oliate e in ordine, e tutti quegli strombazzamenti di ventre che risuonavano per l’atro cavernoso erano spariti come d’incanto. Conteggiò mentalmente i bigliettoni e si sentì mancare il fiato: una fortuna era appena svanita. Maledì l’impulso che lo aveva costretto a essere sì prodigo, e previde per sé una stagione di digiuni e privazioni per recuperare sul proprio almeno una parte di quel che ora parve essergli stato tolto con l’inganno. Di subito volea tornare allo studio per reclamare ma l’era che stava così assaissimamente bene che in breve il disumore si dissipò e si rassegnò a considerare che tale stato d’incantamento valeva ben il rotolo di carta che era passato dalle sue tasche a quelle del Lamberti.
Così decise di camminare a passo spedito e senza più bastoni verso la propria dimora, quando vide uno straccione addobbato sul ciglio della strada, sdraiato sur un cartone lurido e ricoprentesi con una stoffa ancora più surunta di lui.
D’istinto si allontanò disgustato ma un nuovo impulso gli si impadronì ed egli, contro la sua propria volontà che repelleva il miserabile, s’avvicinò, e quasi vedendosi dall’esterno come colui che contempla un altro, vide se stesso tirar fuori novamente il portafoglio e depositare un corposo paio di bigliettoni nel berretto che il poveraccio avea disposto a’ piedi del cartone in segno di richiesta d’elemosina. Quegli non s’accorse neanche del generoso mentore perché dormiva malamente accucciato, ma il Tano ebbe un sussulto di terrore, perché quell’impulso a donare, così stranio alla sua natura s’era novamente fatto avanti in modo ch’egli non avrebbe assolutamente potuto disobbedire o contrastare.
Sudando freddo s’allontanò e decise di correre difilato verso la sua tana, sperando di non incocciare più in alcun bisognoso che avesse ad attirar la sua attenzione, perché oscuramente intuiva che non avrebbe saputo resistere all’istinto di aiutarlo in modo più che doviziosamente generoso.
Quando fu dentro l’agognata magione, non prima d’aver elargito un’altra manciata di banconote a degli squinternati che affollavano quel giorno i marciapiedi della città, cercò di raccapezzarsi: Lui era sempre Tano. Tano de Matteis. Il risicato fattore della sua propria fortuna, accatastata a suon di sacrifici e soprattutto di egoistica abitudine di non elargire nulla ai fannulloni sfaccendati sconclusionati che empivano le vie. E adesso, adesso che stava bene novamente, ecco l’insano impulso che lo obbligava a sperperare il valsente così acutamente e irsutamente ammassato.
Improvvisamente gli vennero alla mente le parole del Lamberti: «Vi sono effetti collaterali alle mie cure»
Quello sarebbe stato un effetto collaterale? Inghiottì acido mentre decise di andare difilato dall’uomo di cura, perché prima di uscire provò una nuova spinta assai pericolosa. Andò al vaso nel quale celava un piccolo gruzzolo d’emergenza, se ne empì il portafoglio nonostante tentasse di non farlo e uscì novamente. Era tardi ormai e per sua fortuna le vie erano deserte.
Quando arrivò senza incontri sotto la casa del Lamberti era un poco meno agitato. Vedendo tutte le finestre del piano ancora illuminate sonò alla porta. Il segretario gli aprì, sorridendo d’un ghigno di commiserazione.
«Voglio vedere il maestro» diss’egli trafelato, cercando di opporsi a un moto che gli correva per le mani di dare un guiderdone all’omino perché gli aveva aperto.
«Effetti collaterali?» lo sfottè quegli.
Tano lo guardò imbambolato: «Dunque sapevate? E non m’avete detto niente?» disse furioso il De Matteis.
«La salute innanzi tutto, nevvero? E poi che c’era da dire? Che cosa preferite? Star bene come un giovincello povero o essere ricco e prossimo alla tomba?»
«Io voglio essere ricco e star bene. M’è di diritto» urlò stentoreo il Tano.
L’usciere si mise a ridere. «Ma guardali codesti. Vogliono tutto e non si accontentano di nulla. Ringraziate che l’effetto laterale sia di così poco rilievo, per voi. E adesso andatevene ché il mio principale farà nottata per curare tutti quelli che si sono messi in coda»
«Voglio discutere con lui» strillò il Tano mentre la mano correva compulsivamente al portafoglio e se ne distaccava come se volesse obbedire a qualcosa d’innato ma il padrone la controllasse e l’allontanasse dal compimento dell’atto.
«Non c’è niente da discutere. Ormai la frittata è fatta. Mi duole dirvelo ma il mio padrone non può rimediare agli effetti collaterali. Ve li terrete per tutta la vita» rise l’usciere.
«Non voglio morire povero» singhiozzò improvvisamente il Tano, accasciandosi sullo stipite.
Il segretario del Lamberti scosse il capo: «Almeno sarete sano. E ora, buonasera signore»
Quando l’uscio gli si chiuse in faccia l’uomo si sentì quasi crollare il mondo addosso. Ma a mano a mano che scendeva i gradini delle scale, allontanandosi da quell’antro, il cuore parve risollevarglisi. Quando regalò gli ultimi denari che avea nel portafogli a una ragazza smunta e magra che accattonava sur una via del centro si sentì ancor meglio nonostante il dispiacere d’aver dilapidato una fortuna.
Mentre saliva su per il proprio appartamento scoprì che in fondo di tutta quella fortuna non poteva importargli meno di un ette a confronto della magnificenza del suo stato di salute.
Così si coricò e dormì d’un sonno così sodo e profondo quale non capitavagli più da anni e anni. E quando si svegliò, il mattino susseguente, era pronto di nuovo a far passare di mano in mano tutto il denaro che per un periodo della sua vita, il più disgraziato a guardarlo ora, s’era incagliato nelle sue casseforti, donandogli la sicurezza dell’agiatezza ma la svogliatezza della vita.