Ne aveva avuto la sensazione.
Appena appena.
Proprio all’altezza della Comba della Ventina, vicino a Mase.
Era andato lì per raccogliere il genepy, sulla solita parete alla destra dell’alpeggio: un pomeriggio ventilato, con quell’aria pura, rarefatta che scendeva dal ghiacciaio e arrivava fin sotto, dove pascolavano le vacche.
Quando aveva cominciato a trovare le prime piantine gli era anche parso di udire un rullìo profondo, come di un timpano contenuto dentro le viscere della montagna.
S’era alzato per vedere se non stesse passando un elicottero, un aereo…
Il cielo era vuoto, impregnato solo dell’azzurro evanescente dell’altezza.
Arrivato al secondo muro prativo, quello migliore per la raccolta, aveva udito, questa volta distintamente, un lontano suono di corno.
L’eco che quel lamento spuntato chissà da dove aveva portato nella valle era stato amplificato da qualche ritano laterale e gli aveva restituito il suono di un altro corno che rispondeva molto più in alto, come una catena di strumenti che, al pari delle marmotte, segnalava la presenza di qualche entità e diramava poi il segnale di pericolo a tutto l’orbe vallivo.
A questo punto si era decisamente tirato su, chiedendosi chi fosse quel pazzoide che s’era messo a suonare un corno da qualche parte sulla giogaia.
Eppure a ben sentire il suono non era netto, sodo, come quello proveniente dalla campana d’ottone di un corno. Pareva piuttosto ialino e diafano, rincorrentesi tra le cime, come manifesto d’una grande agitazione da qualche parte, una nota incalzante che chiamava e richiamava.
Non era chiaro se connotasse pericolo o piuttosto raccolta, fatto si è che Herbert smise l’incetta e cominciò a chiedersi donde provenisse quella stranezza.
Dopo attento ascolto e alquanto piuttosto disorientamento, certificò come possibile che il suono emanasse da quella che popolarmente veniva chiamata Cima delle Città Bianche.
Stette un po’ indeciso se rimandare la coglitura e dirigersi decisamente verso quel luogo – distava dalla Comba un’ora di cammino – oppure tralasciare e proseguire terminando il compito che s’era dato, di arrivare alla baita con il suo carico di odorosa essenza.
L’aspetto pratico – egli era un praticone, per nulla sedotto dall’aspetto intellettuale delle cose – cioè il futuro guadagno per l’erbe disseccate da vendersi alla distilleria della Mase, ebbe la meglio ed egli, ignorando bellamente quel richiamo che continuava disperato su e giù per gli avvallamenti, fece man bassa del prezioso vegetale, stando ben attento a non sradicare le piante per non compromettere nel tempo future mirabolanti raccolte.
I fatti gli diedero apparentemente ragione perché di lì a poco, sempre più fievole il suono lentamente disparve e lo sostituì il solito silenzio alpino interrotto solamente dagli schiamazzi delle marmotte e dai muggiti lontani degli armenti.
Quando tornò al suo rifugio, fece vedere il bottino al vecchio. Il quale lo prese tra le mani rinsecchite e lo annusò, storse il naso e poi gli chiese con fare inquieto: «Tutto bene alla raccolta?»
«Sì» disse il ragazzo «Viene dalla Comba di Ventine»
«Appunto per quello che te lo chiedo» replicò il vecchio con voce stizzosa:«Non c’è stato niente di strano?»
«No» disse il nipote «A parte un matto che suonava il corno dalle parti della Cima delle Città Bianche»
Il vecchio si irrigidì sulla sedia: «Un corno?» chiese, impallidendo «Hai sentito un corno?»
Il ragazzo assunse la sua solita aria strafottente: «Doveva essere proprio sulla cima perché si sentiva lontano»
Il vecchio riprese il sacchetto e lo annusò nuovamente: «Questo è l’odore» mormorò tra sé e sé «Proprio quello»
«Che cosa?» chiese Herberto infastidito.
«Hai sentito un corno?» chiese nuovamente il vecchio, come se non avesse sentito la risposta.
«Mi è sembrato un corno. Ma era lontano… Comunque poi ha smesso di suonare…»
«Non smette mai» rispose.
Herbert osservava il comportamento del nonno, confuso.
«Non agitarti» gli disse «Devo chiamare qualcuno? Ti senti bene?»
Il vecchio ora sudava e roteava gli occhi di qua e di là.
«Sei tu che non devi sentirti bene» mormorò poi alla fine «Hai sentito le campane delle Città Bianche»
«Campane?» disse. Poi pensò: “Gli è partito il cervello. Gli ho appena detto che c’era un matto che suonava il corno…”
Come se gli avesse letto il pensiero il vecchio disse: «Le campane delle Città Bianche sono i corni che suonano per chiamare a raccolta gli spiriti della montagna. Ma non tutti possono sentirli»
Al nipote scappò un risolino di scherno: «Ancora la storia degli Spiriti della Montagna? Nonno, siamo nel ventunesimo secolo»
Il vecchio lo guardò desolato: «In genere sentire le campane delle Città Bianche porta male. Brutti incontri. Strane visioni. Io stesso…»
Il ragazzo lo interruppe spazientito: «Magari non era nenache un corno… forse mi sono sbagliato» disse, per finire quella discussione.
«No, no, c’è anche l’odore. Non devi andare più in quel posto, per quest’anno» disse sempre parlando più a se stesso che al nipote.
«Scherzi? C’è un sacco di genepy non ancora fiorito. Tra quindici giorni ne porto a casa un altro sacco» disse il ragazzo.
Il vecchio saettò uno sguardo duro al giovane: «Non ci andrai. È pericoloso»
Il nipote lo guardò torvo, poi decise di non discutere più: «Va bene. Andrò nel vallone del Lago Verde. Ce n’è abbastanza anche laggiù» disse per niente convinto.
Il vecchio scosse il capo: «Sarai tirato di nuovo lì. Fanno così con tutti»
«Chi fa così con cosa?» chiese Herbert irritato.
Il vecchio sventolò la mano: «Troppo lungo da spiegare. Basta che tu non ci vada più. Ma bada, non sto scherzando»
«Neanch’io scherzo» chiuse il ragazzo e se ne andò nel tinaggio a sistemare le piante sulla rete per farle seccare.
Quindici giorni dopo Herbert uscì sull’aia col sacco floscio sulle spalle. Nonno Gautier se ne stava a sonnecchiare seduto sulla panca di legno che s’era fatto anni addietro. Il cortile della malga dava sul vallone che sprofondava verso la valle principale, una fenditura stretta che s’allargava a mano a mano verso la pianura, sul cui fondo azzurreggiava un filo di liquido che scendeva a tratti rabbioso, a tratti placido, allargandosi in minuscoli laghi di grandezza variabile, a seconda del regime delle acque. Visto così dall’alto il colpo d’occhio su quella granditudine era impressionante: non si finiva mai di notare nuovi particolari, e lo sguardo del vecchio pareva assai impegnato in quell’attività, soprattutto negli ultimi giorni. Egli stava ore seduto, come intento a cogliere quella straordinaria geografia; di tratto in tratto il suo sguardo però si perdeva, a scatti, verso la Comba di Ventine come se se fosse costretto a cercare qualcosa che non sapeva nemmen lui, una sorta di alea, di aura che emanava dalla superba costola del Monte delle città Bianche, quasi sempre avvolto da filacci di nubi sospese sulla cima.
«Che fai nonno?» gli chiese ironicamente il giovane passandogli innanzi «Controlli che non manchino alberi al bosco di Ventine?»
Il vecchio si riscosse: «A che punto è la luna?» gli chiese di rimando.
Herbert lo guardò triste. “Non riesco ad abiturami al fatto che sia svanendo di testa” pensò, poi consultò il suo orologio da polso che aveva anche una fessura per le fasi lunari e gli disse: «Siamo quasi alla luna piena. Potrebbe essere stasera o domani».
Il vecchio annuì: «Il richiamo allora è per stasera» mormorò tra sé.
Herbert scosse il capo e si avviò al sentiero: «Dove vai?» lo fermò il nonno.
«Alla Comba, a cogliere il genepy» rispose il giovane.
Il vecchio s’accese: «Stupido. T’ho detto che non ci devi andare. Men che meno oggi»
«Non t’arrabbiare, me n’ero dimenticato» fece Herbert infastidito «Andrò al Lago Verde»
«Bada» disse il vecchio, con gli occhi lucenti e puntandogli il dito contro «Hai sentito le campane…»
Il giovane tagliò corto, già irritato, avendo egli un carattere piuttosto focoso: «Ho capito. Anderò al Vallone del lago. Ci vediamo stasera» fece e s’avviò deciso.
Il vecchio lo guardò allontanarsi e si bevette quell’immagine come se fosse l’ultima volta che avesse a vedere il ragazzo.
Appena fuori dalla visuale del paese, con lo sparire dell’aura del vecchio che sapeva particolarmente di follia, il giovane cominciò a ragionare che la strada del vallone era alquanto più lunga e che soprattutto in quel luogo il genepy era alquanto più scarsevole che non alla comba. Arrivato alla deviazione del sentiero da prendere per andare al Lago, irritandosi ancor più con se stesso argomentò ad alta voce: «E che io ho da ascoltare quel vecchio svampito? Per farlo contento dirò che sono andato al vallone, mentre invece ora me ne vado alla Comba a raccogliere con più facilità il mio bottino» e prese decisamente verso il monte delle Città Bianche.
A dire il vero provava egli anche una specie di ansia, perché se avesse dovuto essere proprio sincero con se stesso, ciò che lo spingeva verso quel loco non era solamente al prospettiva di un raccolto abbondante e redditizio, ma soprattutto la curiosità.
Era presto e se avesse di nuovo sentito quello strano suono, sarebbe partito di buona lena e sarebbe andato su fino alla cima. Avrebbe ben saputo stanare colui che si prendeva la baia di mettersi a sonare il corno di lassù per chissà quale motivo e gli avrebbe chiesto ragione di quell’operare.
D’un tratto sentì tronare in lontananza. Herbert alzò lo sguardo al cielo trovandolo perfettamente pulito, sgombro e sereno.
Un filo di inquietudine gli attraversò il precordio, poi cacciò quell’infausto senso: «Avranno fatto brillare una mina» si disse e proseguì di buon passo fin quando non arrivò alla Comba.
Stette qualche minuto ad ascoltare, non appena fu sul pianoro, ma non udì niente di strano né di particolare.
Inizò a raccogliere quella straordinaria fioritura, nell’animo una punta di delusione. Aveva ormai quasi dimenticato tutta la storia quando udì, questa volta molto chiaro e molto più vicino della prima occasione, il suono del corno.
S’alzò di scatto cercando di identificarne la provenienza. Nonostante l’eco ne amplificasse il timbro e lo spalmasse nei ritani e nelle asperità sassose, lo temprasse tra le rade foreste di abeti e larici e lo dilatasse nel rimbalzo tra una parete e l’altra della valle, il suono era deciso, potente e preciso. Herbert ne individuò immediatamente la provenienza: lassù dalla cima delle Città Bianche.
Tralasciò immediatamente la raccolta e si avviò deciso verso la traccia che saliva in mezzo a una colletta sopra la quale c’era un lago prima di affrontare l’erta più ripida.
A mano a mano che si avvicinava, il suonatore sembrava acquisire potenza e lanciava certi squilli che parevano appelli imperiosi. In risposta di qua e di là, forse per l’eco, forse per la presenza di altri sonatori, i richiami si irradiavano di anfratto in anfratto e coprivano tutta la lunghezza della Comba, sin quasi al paese da cui proveniva il giovane.
Quando giunse alla colletta Herbert decise di accostarsi al lago per rinfrescarsi le tempie.
Si chinò sulle acque trasparenti e nel rispecchio della luce del sole che stava cominciando a farsi dorata e radente, vide una figura diafana apparire e sparire sul pelo d’acqua.
Si voltò vivamente con un tuffo al cuore e vide dietro di sé una donna, una ragazza di straordinaria esilità e bellezza in piedi, dietro di lui, con una veste leggera e trasparente. Ella si aggiustò la pesante treccia bionda intessuta di foglie e fiori bianchi e gli sorrise.
Herbert, immobile la osservava.
«Vieni» le disse la giovane e, senza aspettarlo, sincamminò leggera verso il sentiero che conduceva più su.
Il ragazzo si riscosse: «O chi sei tu?» le chiese.
La ragazza rise e sparì dietro un masso attorno alquale il sentiero si dipanava.
Herbert attese alquanto, poi, divorato dalla curiosità s’incamminò quasi correndo verso il luogo dove era sparita la fanciulla.
Quando ebbe aggirato il masso rimase confuso: lungo la traccia del cammino, evidenziato da una linea più chiara tra i sassi che si dipanava verso la cima non c’era alcuno.
In quel momento il corno tacque, poi lanciò tre lunghi, lamentosi squilli, indi fu silenzio.
Herbert si guardò intorno disorientato.
In quel momento un filaccio di nube fuoriuscì da uno sperone roccioso molto più in alto e coprì la cima.
Il giovane si riscosse deciso e intraprese quell’ultima arrampicata.
Mentre prima avrebbe desiderato che il corno smettesse di suonare, tanta era l’inquietudine ch’egli provava al sentire quei lamenti, adesso il silenzio gli pareva assai più insopportabile del rumore. Mentre, un passo dietro l’altro guadagnava l’altezza, cominciò a intravvedere, tra gli squarci nebbiosi che vanivano e si condensavano sulle superfici montane, alcuni particolari sassi, o formazioni rocciose che non aveva mai notato.
Erano scolpite – gli parve – in forma di guglie, cupole, tettti di edifici la cui proporzione non era in grado di cogliere, essendo egli alquanto lontano e in basso, e formavano il profilo di diverse città, collocate ad altezze diverse, a formare un’armonia di bellezza architettonica quale non gli era ancora capitata di vedere mai nella sua ancor breve vita.
Parimenti cominciò a udire un trapestìo, un mormorìo, un rumoreggiare lontano di folla sussurrante, come capita quando dalla cima di una collina si avverte l’industriosa procacità dell’assembro cittadino che forma un insistente anche se quasi inudibile tappeto sonoro.
Ne venne avvolto e a questo punto la curiosità di vedere che cosa stesse davvero accadendo lassù, se tutto quello ch’egli udiva e vedeva fosse o meno un semplice inganno oppure una realtà fatata e mistica prevalse in lui e affannosamente, sempre più eccitato, prese quasi a correre per il sentiero in salita. La fatica gli bruciava i polmoni, ma egli ardeva nel suo intimo d’una sete di curiosità così affocata da fargli dimenticare i muscoli che scoppiavano e l’affanno che gli inceneriva la gola.
Quando fu abbastanza vicino alla prima di quelle città si rese conto che quegli edifici erano smisurati, alti almeno quattro volte la chiesa del paese, incombenti sugli strapiombi e tutti bianchi, come fossero fatti di marmo.
Il sentiero si allargava sempre più fin quando egli si trovò improvvisamente su una strada lastricata di pietre lisce, finemente congiunte e tagliate attraverso la quale potevano andare due carri affiancati, e ne avanzava ancora.
Sempre più meravigliato e dimentico quasi del suo stato, e dell’ora, e del suo compito, avanzò fin quando non fu prossimo alla porta di uno di quegli edifici che era anche l’ingresso della prima città.
Quando fu sotto l’arco, vicino alll’apertura che s’apriva nel battente più grande, ecco risuonare nuovamente i tre squilli di corno che qui però erano mirabolanti come il suono di mille timballi. Si coprì le orecchie mentre un dolore gli lancinava il timpano, così offeso dalla potenza dello strumento da dolergli quasi.
Lo spiazzo antistante era deserto eppure Herbert abbe la sensazione d’essere osservato.
Al termine del rombo di quell’acciaro, una postierla si aprì lasciando intravvedere l’interno della prodigiosa città.
Il ragazzo si protese per sbirciare quel che potevasi osservare, con la coscienza che non sarebbe sicuramente entrato là dentro. Oltre all’animazione che provava in sé avvertì con lucidità un turbamento che derivava forse dalle parole del vecchio: in effetti pareva atteso lì quantunque non una figura umana – a parte quella dell’evanescente ragazza – si fosse ancora vista.
Dietro la minuscola porta s’apriva una strada linda munita di edifici di pietra dalle fantasiose architetture. Essa s’addentrava in un centro ordinato che aveva, in lontananza come punto di fuoco un singolare palazzo. Tutto era deserto ma Herbert percepiva occhi dietro le finestre che, non visti, scrutavano con febbrile smania che cosa egli avrebbe fatto.
«Che cosa è tutto questo?» domandò ad alta voce.
In quel mentre una guardia vestita con un giaco di cuoio si affacciò alla postierla, vedendola aperta. Quando vide Herbert sparì subito procurando di richiudere rumorosamente il battente.
Il ragazzo non sapeva che pesci pigliare mentre l’inquietudine cresceva. Poi una musica di corni lontanissimi iniziò a diffondersi nell’aria mentre con un rombo sordo la porta principale della città si apriva.
Dietro v’era un vero e proprio esercito dall’aspetto bellicoso. Non appena lo stipite fu sufficientemente largo per permettere il passaggio, i soldati si affrettarono verso di lui.
Herbert non si fece sorprendere, principiò a scappare di lena buttandosi giù per l’erta, scivolando e rotolando mentre gli armati, nonostante il peso correvano lievi e si facevano sempre più vicini.
D’un tratto davanti a lui si parò la ragazza che emise un verso gutturale alzando le braccia.
Il drappello si fermò. Herbert si buttò per terra, esausto, vicino a lei.
«Non ti avvicinare» disse di lontano, ansando, quello che sembrava il capitano, rivolto al ragazzo.
«Taci» disse la ragazza e con un gesto delle mani fece sparire la bocca al soldato.
Poi si avvicinò a Herbert e lo guardò con occhi languidi che a lui apparvero come i più puri che avesse mai visto.
«Sei bello» gli disse accostandolo e carezzandogli una guancia.
Il capitano continuava a gesticolare e a emettere suoni.
Harbert si voltò verso di lui ma la ragazza gli prese il volto invitandolo con dolcezza a guardarla: «Io sono la bellezza e tutto qui mi è sottomesso» sussurrò accostandogli le labbra all’orecchio.
Herbert provò una fitta di piacere così intenso che dimenticò d’un tratto chi era, che cosa stava facendo, e in qual situazione si trovasse. Era la felicità perfetta quella che intravvedeva, in forma di purezze e di assonanze d’assoluta armonia.
La ragazza lo trasse a sé e prese a stringerlo con passione.
La sensazione di euforia che lo investì non gli fece notare un fremito particolare che la sua pelle aveva principiato a manifestare dopo il contatto con la sublime creatura.
Così come non avvertì altro che puro piacere quando le labbra della giovine accostarono le sue.
E non si rese conto che la dimensione del suo corpo iniziò a mutare ingobbendosi, restringendosi, affievolendosi, raggrinzendosi mentre con estasi si abbandonava al letale abbraccio.
Quando la ragazza ebbe finito, di Herbert non rimaneva che un pugno di polvere in forma di sagoma di fantoccio.
La silvana lo guardò con disprezzo: «Tutti uguali i giovani umani» disse, restituendo la bocca al capitano.
«Principessa» disse questi inginocchiandosi.
«Hai svolto bene il tuo compito, anche se hai fallito» disse la ragazza sorridendo.
«Non si può nulla contro la passione della giovinezza» replicò la guardia.
«Non si può nulla quando si crede all’illusione del tempo» fece la principessa soffiando sulla polvere che era sul suo palmo.
Intanto le città delle Bianche Cime iniziarono a vanire.
«E quando si riavrà?» fece la guardia
La principessa fece spallucce: «Tanti si sono riavuti pensando di aver sognato»
La principessa iniziò a camminare verso la cima che ora era ritornata visibile perché non più occupata da alcuna costruzione.
Il soldato la seguì a debita distanza.
Fino a quando anche le loro ombre non furono altro che un pulviascolo di materia oscura che si sciolse nel pallore del tramonto.