«Venga, venga… il Maestro è di là»
La donna – doveva essere una specie governante tuttofare, quasi una badante – strascicava i piedini in bilico su pattine minuscole. Mrs. Laurey si guardava intorno emozionata.
La casa era suntuosa ma aveva un che di vecchio, sporco, trascurato. Un filo di polvere intristiva la superficie dei mobili, qualche macchia di opaco sugli ottoni, un filo, appena accennato, di ragnatela in alto, tra le mantovane delle tende.
La donna andava svelta tra i salotti che si susseguivano all’aprirsi di sempre nuove porte finché giunse davanti a un usciolo incassato in una boiserie.
Si voltò e squadrò la giornalista con fare scettico.
«Io non ero d’accordo» sussurrò aggressiva, «ma lui ha voluto così… i giornalisti portano sempre rogne» le disse come congedo mentre spalancava la porticina.
Mrs. Laurey entrò, impacciata.
Lo studio era grande: c’era una monumentale scrivania ingombra di fogli, scaffali pieni di libri e in mezzo un pianoforte a coda nero, lucido e chiuso. Un vecchio canapé occupava lo spazio vicino alla finestra.
Seduto su una poltrona, accanto a un tavolino basso su cui fumava una tazza di tisana. sedeva lui, il grande Ottavio Ramperti.
Mrs. Laurey se ne stava in piedi e sorrideva scioccamente senza riuscire a spiaccicare parola. L’altro la guardò da sotto in su e le fece un cenno stizzoso di sedersi nella poltrona, gemella della sua, posta di fronte a lui.
«Buongiorno maestro» disse infine la giornalista dopo che si fu seduta, con uno stentato italiano.
Ramperti aggrottò le sopracciglia: «Conosce l’italiano?» chiese, asciutto.
«Oh, sì… sono stata in Italia per molti anni»
«Le è rimasta una forte impronta della sua lingua nativa…. inglese?» chiese il musicista.
«Mio papà è di Washington»
Ramperti fece una smorfia: «Detesto gli americani» e distolse l’attenzione da lei concentrandosi sulla tisana che stava tentando di sorseggiare: «È bollente. L’ho detto mille volte che non la voglio troppo calda» brontolò tra sé e sé mentre l’altra, emozionata, continuava a mantenere il solito sciocco sorriso di circostanza.
«Va beh, dovrò adattarmi» disse alla fine dopo aver terminato di bere «È pronta?»
Mrs. Laurey tirò fuori un minuscolo registratore digitale ma lui scosse violentemente il capo: «Niente aggeggi del genere. Non voglio registrazioni. Dovrà scrivere i suoi appunti in un classico, volgare notes. Ce l’ha un notes almeno?»
La giornalista arrossì violentemente. «Uh, no… veramente… oggi non lo usiamo…»
Ramperti scosse un campanello. Dopo qualche istante di silenzio imbarazzato entrò la donna di prima.
«Filomena, porti un notes alla ragazza» La governante uscì mentre il Maestro le urlava dietro: «E porti anche una penna… non si sa mai…»
I due evitavano di guardarsi, il Maestro visibilmente seccato per il contrattempo, la giornalista agitata sulla poltrona.
«Bel tempo» azzardò quest’ultima.
Ramperti non rispose, sembrava perso in qualche luogo remoto della sua mente. Teneva gli occhi volti verso l’alto e canticchiava qualcosa, una melodia infantile ribattuta con il ticchettio dell’indice destro sul bracciolo della poltrona.
Finalmente Filomena arrivò con un notes ingiallito e una penna. Li posò brontolando sul tavolino tra le due poltrone e uscì dalla camera quasi sbattendo la porta.
«Bene… che cosa vuole sapere…» chiese d’un tratto, acido, Ramperti quasi riscotendosi dal suo torpore.
«Come è nata la sua passione per la musica?»
Ottavio unì le dita delle mani davanti al volto e si tuffò nei ricordi.
Il primo vagito musicale. Si perde lontano, sotto una tettoia piena di foglie di mais. Erano tutti lì a sprimacciare le pannocchie dalle foglie.
«Allora non c’erano macchine. Si faceva tutto a mano. Sa che cosa mi ricordo? Una lampadina appesa su in alto. Ero bambino, mi sembrava una luce così triste. Si perdeva nel buio della travatura. Mi sembra fosse autunno. Ricordo che non faceva caldo, ma neanche freddo. Qualche brivido insomma, mia madre che urlava:«Copriti». E poi hanno cominciato a cantare. Le donne intendo. Quelle che spogliavano le pannocchie. Un banale canto popolare, ma aveva un ritmo. In perfetta armonia con il lavoro che facevano.»
Il maestro si concentrò e poi iniziò a cantare a una melodia a bassissima voce. Non aveva parole.
«Me le sono dimenticate» disse quasi in tono di scusa.
Riassunse la sua aria truce. «L’unica musica degna di questo nome. La musica popolare, quella della gente.»
Mrs. Laurey sorrise, ricordando le battaglie dell’insigne musicista per portare nei conservatori la musica popolare.
«Per questo lo hanno chiamato il Maestro della povertà?»
«Quelli erano i miei detrattori» Ramperti sorrise sghembo. «Quelli che non hanno mai creduto allo spirito autentico della musica. Gente cresciuta in un ambiente rarefatto, intellettuale snob.»
Ramperti diede un pugno sul bracciolo: «Tutti, tutti così. Hanno scambiato la perfezione tecnica dell’esecuzione per un’arte. E hanno dimenticato la comunicazione. Potrei farle un sacco di nomi: tutta la bell’acqua dei compositori moderni e d’avanguardia e prima ancora tutti quelli al servizio dei signori.»
Mrs. Laurey prendeva appunti frettolosamente.
«Scriva, scriva. Io sono sempre riuscito a starmene fuori. Non ho frequentato MAI un corso accademico, non ho MAI suonato Bach o Mozart o Chopin o Debussy… eppure sono diventato quel che sono diventato»
«Dunque lei è un autodidatta?»
Ramperti sorride. «Vivevamo in campagna. I miei capivano di musica – quella colta intendo – quanto un macellaio della merce di un negozio di porcellane cinesi. Era così. Non avevamo la radio. Non c’era televisione. Sono cresciuto musicalmente unicamente concentrato su quel che sentivo. Non sono stato corrotto mai da nessun’altra visione. Per questo riesco a vedere le cose in modo diverso da tutti gli altri.»
«Lei attribuisce a questo il suo successo?»
«Guardi: le mie musiche vengono suonate ora in tutto il mondo. Provi a domandarsi perché. Che cosa accomuna i gusti musicali di un indiano, uno scandinavo e un brasiliano? Eppure la mia musica piace a tutti»
«Perché è diversa?» azzardò la giornalista.
«Proprio questo è il punto. Non è solo diversa. È universale.. Io ho superato l’idea di genere, di scuola, di movimento… sono arrivato alla musica universale. Erano secoli che qualcuno la cercava. Ma cercavano sempre nella direzione e nel modo sbagliato»
Le guance di Ramperti si erano accese. D’un tratto ebbe un accesso di tosse che tentò di contrastare con una pezzuola. Filomena si affacciò a una delle porte della stanza: «Tutto bene Maestro?»
Lui si voltò verso di lei tossendo e scosse il capo per dirle di lasciarlo in pace. La donna si ritirò.
Quando riuscì a calmarsi rimise in tasca la pezzuola e guardò la donna con occhi acquosi, venati di rosso. «Dov’eravamo rimasti?»
«La musica universale» disse lei, poco convinta.
«Che cosa crede? È stato un impegno ciclopico arrivarci. Ho dovuto sforzarmi. Quando sono diventato studente cosciente, giovane adulto ho dovuto evitare qualsiasi ascolto che corrompesse la mia vena musicale. Scommetto che non crede che io non ho mai suonato niente di un qualsiasi compositore di quelli famosi, intendo, e ho sempre evitato la musica degli altri.»
«Che cosa vuol dire? » balbettò Mrs. Laurey «Non mi dirà davvero che non ha mai studiato su qualche manuale.. eseguito una sonata di Beethoven….»
«Mai» disse orgoglioso Ramperti. «Questo è il fatto straordinario. Per proseguire nella tecnica pianistica, ad esempio, mi sono inventato i miei esercizi…. quelli che poi sono diventati la famosa scuola scientifica Ramperti. Adesso li usano in tutti i conservatori»
Il Maestro si interruppe di colpo, come folgorato da un’idea. Poi si mise a ridere, una risatina tremula, secca: «Li ho fatti crepare tutti quei tromboni. Tutti a terra davanti a me: cerchi un conservatorio che non usi la mia Scuola scientifica. Ih! Ih! Gli esercizi di un dilettante (dicevano loro) adesso vengono studiati e analizzati da fior di professoroni. E non esiste un pianista che non ne abbia fatto uso. »
«Ammirevole» disse la giornalista.
«Può dirlo. Poi sono andato avanti. La vede questa casa? Questa biblioteca? Cerchi, cerchi pure…. non troverà uno spartito che non sia mio. Un libro sulla musica o su qualche compositore.»
Si alzò e andò alla finestra.
«Venga qua» disse. Mrs. Laurey si alzò e andò verso di lui che indicava i vetri: «Li vede?»
«Sì, sono… vetri»
«Insonorizzati»
«Perché? Domandò la giornalista.
«Per non lasciare entrare qui dentro nessun suono. Vede signorina, io non so nessuna melodia di altri, nessuna composizione, nessuna struttura. Tutta la musica che conosco è fuoriuscita da me, da un naturale sviluppo che non saprei neanche definire. E sto bene attento a non corrompere la mia vena con polle di fango… Ripeto: non la conosco, ma giurerei che la musica degli altri è fango, mescolanza di idee, promiscuità di stili… uno che richiama l’altro… uno che copia l’altro…»
Ramperti crollò sulla sua poltrona. Si sfregava la fronte raggrinzita: «Oh, lo so… lo so che cosa dicono. Che sono un vecchio eccentrico»
«Non direi.» cercò di rassicuralo Mrs. Laurey. Egli la ignorò.
«Che solo un pazzo può ragionare così, che non esiste nessuna opera d’arte senza un’altra opera a cui fare riferimento. Ma non capiscono nulla. Nulla. Ho fatto della mia vita una lotta. Una lotta titanica per sfatare questa convinzione.»
Ramperti stava accalorandosi, il tono della sua voce era salito e Mrs. Laurey era inquieta, quasi spaventata. Si rimpicciolì sulla poltrona mentre scriveva furiosamente.
«E così, pur ignorando ogni tipo di musica ho creato la mia musica che non è solo UNA musica è LA musica.»
Il Maestro si accasciò ansando sulla poltrona. Chiuse gli occhi. Il volto era pallidissimo, sofferente.
La giornalista si chiese se fosse il caso di chiamare la governante. Tuttavia vide pian piano l’espressione del Maestro distendersi, riassumere il suo aspetto stizzoso, nervigno.
«È così che ho creato i miei capolavori immortali. In fondo, sono anche diventato ricco grazie ad essi. Forse è per questo che gli altri mi odiano» si sporse verso la giornalista e sussurrò: «Sono invidiosi» e diede in una risatina nervosa.
Poi si alzò, andò al pianoforte e iniziò a suonare “Fiorile”, la sua composizione probabilmente più notas.
La giornalista finì di annotare sul taccuino, gettò in tralice un’occhiata all’orologio e fece per aprire bocca: «Maestro…» accennò.
«Se ne vada» gli rispose quello.
«Ma…»
«HO DETTO SE NE VADA! L’intervista è finita.» strillò Ramperti e smise di suonare di colpo sbattendo il coperchio sulla tastiera.
Profondendosi in scuse la giornalista si alzò, si inchinò, raccolse in tutta fretta le sue cose e uscì dalla stanza scortata da Filomena che borbottava: «Questi giornalisti. Tutti uguali»
Quando fu solo, il Maestro si distese su un canapè antico vicino alla finestra.
Filomena rientrò nella stanza.
«Maestro che vi devo portare?» chiese.
«È stato estenuante come al solito» rispose Ramperti.
«Secondo me il Clavicembalo ben Temperato vi tirerà un po’ su»
«No, non voglio Bach dopo i giornalisti. Preferisco Chopin. Fai tu»
«Ve bene, va bene. Ecco qui i preludi. Vi fanno sempre calmare, non è la musica che preferite?»