Nella terza parte dei Pensieri sull’arte poetica, pubblicati in forma di articoli saggistici nel 1897, (seconda parte del colloquio tra poeta e fanciullino) Pascoli si interroga su una questione di fondo. Qual è il fine della poesia? Perché l’uomo, a un certo punto della sua vita si mette a fruire o a comporre poesia?La prima considerazione ch’egli fa è che la poesia non ha un fine utilitaristico immediato. Non deve averlo. La natura del fanciullino è tale che egli è sempre distratto da qualcosa di nuovo, non persevera, non si ferma a ragionare, aborre la consuetudine. Parimenti chi è contagiato da questa innata curiosità sembra bamboleggiare, sembra incantato a oasservare cose ed eventi di poco conto su cui il ‘savio’, il ‘gestore’, non fa alcun affidamento. Qui c’è la prima grande rottura tra uno stile di vita basato sul logos e quello basato sul mythos. Non ci può essere intesa tra i poeti e i costruttori di realtà – quelli materiali, s’intende – perché è proprio diverso il modo in cui queste due categorie affrontano il mondo e la concatenazione degli eventi che lo guidano.Dunque, se la poesia non porta alcun beneficio o vantaggio di tipo materiale, a che cosa serve?Serve a ‘dilettare‘. Sotto questa parola, Pascoli intravvede alcuni archetipi comportamentali molto importanti che costituiscono la base del saper comprendere poetico.Anzitutto diletto è la capacità BASTEVOLE di gioire davanti ai fiori colti sul sentiero o nelle crepe del muro. L’idea della semplicità d’animo non è nuova, ma assume qui un colore psicologico tutto particolare se contestualizzata alla fine dell’ottocento. L’oggetto più ambito del lavoro umano, l’utile, destinato al sostentamento è desiderato ma non amato. La seriosità non allieta nessuno. Non c’è attrattiva in una vita proiettata esclusivamente – e razionalmente – al proprio sostentamento. Fatta questa premessa, il massimo della poesia sta nella celebrazione dell’intimità familiare, nelle piccole cose, nelle quasi invisibili emozioni domestiche. Attenzione: della quotidianità, alla poesia non interessa nulla riguardo ciò che concerne la materialità della vita. Essa è invece proiettata alla fruizione di un’umanità che si realizza nelle relazioni: in altre parole la poesia canta l’humanitas e si contrappone alla retorica della cultura celebrativa delle virtù sociali. Di qua sta il freddo e l’insensibilità, di là sta la vita. Una vita che ha un suo compimento: l’immagine usata da Pascoli per definire il premio destinato al poeta è quella della rosa. Che cosa porta la poesia? Porta rose senza più spine, letizia allo stato puro, godimento sommesso e trepido di ciò che di più grande abbiamo, la nostra humanitas, appunto.Ben venga dunque il fanciullino che butta all’aria i nostri sistemi di valori: dobbiamo imparare – secondo Pascoli – dalla poesia un modo più disinteressato e umano di attendere a tutte le cose della vita, se vogliamo coglierne l’essenza nel suo centro più profondo.