Storicamente la burocrazia nasce e si sviluppa quando un’istituzione vuole imporre una forma di controllo sui processi e sulle procedure che caratterizzano il suo funzionamento. In quest’ottica due sono le parole nemiche della burocrazia: approssimazione e improvvisazione. Nella mentalità burocratica tutto deve essere vagliato, previsto e sottoposto a norma; in altre parole descritto e ottimizzato.Questa mentalità ha un corrispettivo di tipo ‘economico’: si accompagna infatti alla cultura dell’impresa, in quell’area dell’organizzazione del lavoro che vede nella suddivisione del processo e nella specializzazione dei compiti la panacea per raggiungere livelli di produzione concorrenziali e a basso costo, indipendentemente dagli effetti che tale organizzazione ha sui destinatari finali, cioè gli attori materiali del processo produttivo.Con la burocrazia e l’organizzazione aziendale di tipo rigido, dunque, le ‘aree grigie’ delle procedure, ossia quelle che per loro natura tendono a svilupparsi all’insegna del ‘non normato’, vengono sempre più limitate fino a giungere all’annullamento.
La mania dilagante del controllo che nell’organizzazione moderna dei processi di produzione ha dato origine alle pratiche aziendali delle certificazioni di qualità e nell’organizzazione della vita sociale è diventata burocrazia, pian piano e surrettiziamente è penetrata in molti ambiti e ha influenzato in modo consistente anche campi nei quali la realtà organizzativa richiede parametri e culture completamente diverse: pensiamo ad esempio l’ambito educativo e più specificamente quello scolastico.A ben guardare, già dall’ideazione dei progetti di potenziamento cognitivo strutturati e graduati (pensiamo ad esempio ai molti laboratori cognitivi sorti nelle scuole per ovviare al problema del recupero degli alunni svantaggiati) fino ad arrivare all’ultima idea di curricolo, si può notare che l’ideologia di fondo soggiacente a tutto il fenomeno sia il fatto che noi possiamo effettivamente esercitare un controllo efficace sul processo di apprendimento e più in generale sul processo educativo.Ecco dunque nascere percorsi strutturati per fasce d’età, tassonomie sempre più precise che, è vero, si sono spostate dai contenuti alle competenze ma che di fatto insistono sempre su un principio di fondo che cioè tutti debbano riuscire a fare le stesse cose nello stesso tempo e alla stessa età.
È realistica tale prospettiva? Nel momento in cui il dibattito pedagogico (nato dagli ultimi studi delle scienze cognitive) pone l’accento, ad esempio, sull’inefficacia della strutturazione per classi di età sulle quali è basata la nostra scuola e sulle differenze individuali di maturazione cognitiva, ha senso, ad esempio, proporre livelli di competenze standardizzati da misurare con prove oggettive (cfr. le prove INVALSI) che devono funzionare allo stesso modo su tutto il territorio del regno, per tutte le scuole, le classi e gli studenti? È utile pensare alla scuola come a un’azienda il cui prodotto sia quantificabile in risultati scolastici, merce di scambio su cui, ad esempio, in prospettiva basare i criteri per i finanziamenti?La questione non è oziosa perché sottende, oltre a un’illusione del controllo delle variabili dell’apprendimento che persino un principiante sa essere una chimera, anche una visione del mondo basata sull’idea di uniformazione piuttosto che sull’idea di diversificazione.È chiaro che una verifica del lavoro svolto va fatta, che individuare linee di programmazione comune è necessario, che definire mete da raggiungere è utile, purché tutto questo non diventi cifra fredda, azione meccanica di riscontro e dimentichi il cuore stesso della formazione culturale, un processo cioè con moltissime variabili impossibili da controllare.Tutto questo mentre la cultura nel suo vivace e tumultuoso svilupparsi sta prendendo direzioni ben diverse. Il sapere si sta organizzando in modo sempre più frammentario e aperto, le sintassi mentali dei nostri alunni si formano, al di fuori della scuola, in modi che spesso sono totalmente incompatibili con le nostre forme di programmazione a lunga e lunghissima scadenza, e noi insegnanti rischiamo di diventare, come ben descrive Bauman, degli artiglieri in stile bellico ‘prima guerra mondiale’. Prepariamo con cura il tiro, prevediamo la traiettoria, calibriamo accuratamente i nostri strumenti didattici ma, quando spariamo, il bersaglio, fluido e mobilissimo, è già molte miglia distante.È necessaria una svolta. Occorre rinunciare all’illusione del controllo, è necessario probabilmente mettere in discussione il concetto stesso di curricolo, provare a ripartire a programmare in modo diverso i percorsi didattici, occorre accettare la logica della diversificazione, immaginare la scuola come ambiente di studio e formazione basato sulle possibilità reali degli allievi e non su quelle presunte dalle tassonomie, valorizzare l’aspetto socializzato della cultura e della formazione, riportare una dimensione culturale vera, fatta di dibattito e di dinamismo.In realtà, a ben guardare tutte queste affermazioni non sono una novità nella pratica didattica quotidiana. Al di là del burocratismo di facciata (programmazioni, procedure, verbali ecc.) la realtà concreta della maggior parte degli insegnanti è già adattamento, disconoscimento delle tassonomie (quante sufficienze sono vere sufficienze?), interventi di individualizzazione dei percorsi.Sarebbe interessante dare a tutto questo valore di riflessione didattica e pedagogica, per poter porre al centro del lavoro dell’insegnante una discussione seria sui fondamenti dell’apprendimento piuttosto che le terribili e sterili disamine procedurali sui criteri per poter determinare con precisione ed esattezza quanto una competenza sia stata raggiunta e se il livello sia in sintonia con le indicazioni del curricolo, che diventa in quest’ottica una gabbia da cui è difficile, se non impossibile, uscire.